Corsa alla Casa Bianca: Trump inarrestabile, Hillary inevitabile

Alla vigilia del Super-Martedì delle primarie Usa 2016, in chiave Election Day, la nomination di Trump sembra quasi sicura, ma preoccupa l’establishment repubblicano e in genere tutti i …

Alla vigilia del Super-Martedì delle primarie Usa 2016, in chiave Election Day, la nomination di Trump sembra quasi sicura, ma preoccupa l’establishment repubblicano e in genere tutti i conservatori moderati.

Alla vigilia del Super-Martedì delle primarie Usa 2016, l’1 marzo – si vota in 14 Stati ed anche in alcuni Territori -, le candidature di Hillary Clinton e Donal Trump appaiono l’una inevitabile e l’altra inarrestabile.

L’ex first lady ha dalla sua il partito, un’organizzazione di campagna migliore e maggiori fondi, rispetto al suo rivale Bernie Sanders. Lo showman, invece, ha contro il partito, che, però, può cercare di fermarlo solo facendo blocco su un unico candidato moderato e credibile; ma, forse, è troppo tardi, perché i meccanismi d’assegnazione dei delegati favoriscono il battistrada.

Leggi: Trump si avvia alla nomination repubblicana: vince anche in Nevada, è inarrestabile

In chiave Election Day, la nomination di Trump preoccupa l’establishment repubblicano e in genere tutti i conservatori moderati. In un editoriale, il Washington Post invita perentoriamente leader e notabili a fare tutto quel che possono per fermare lo showman: o serrano le fila, magari convergendo sul senatore della Florida Marco Rubio, o nessuno potrà più bloccarlo.

Anche se la nomination può sempre diventare una guerra sporca di trabocchetti e di scheletri che escono dall’armadio: Mitt Romney, candidato repubblicano nel 2012, butta lì su Fox News che la dichiarazione dei redditi di Trump potrebbe contenere una ‘bomba’, o il magnate non è ricco come dice o non paga tutte le tasse che deve. Negli Usa, gli elettori non lo considerano un titolo di merito.

La prospettiva di una nomination di Trump è perdente in tutti i casi: o perde le elezioni, perché con il suo populismo spaventa i conservatori moderati e a maggior ragione gli elettori indipendenti e centristi; oppure le vince, spostando la campagna su posizioni meno urticanti, e diventa presidente, esponendo gli Stati Uniti (e il Mondo intero) a una leadership fatta di ‘alti e bassi’ ed estrosità.

Lo showman ha già dato segno di volersi dare una mano di vernice ‘moderata’, dicendo, ad esempio, che il suo vice dovrà essere un politico, proprio a compensare il suo populismo.

Certo, malgrado il successo in Nevada, il terzo consecutivo dopo New Hampshire e South Carolina, il vantaggio di Trump sui rivali in termini di delegati resta modesto: non ha neppure il 10% di quelli che servono per garantirsi la nomination alla convention, un centinaio su 1237. Ma d’ora in poi, spesso l’assegnazione dei delegati avverrà con il sistema maggioritario e non proporzionale: chi vince prende tutto. A Trump, dunque, basta essere primo per fare bottino pieno.

I suoi rivali, il senatore del Texas Ted Cruz, che lo ha già battuto nello Iowa e potrebbe vincere ora in Texas, e il senatore Rubio, che non ha ancora vinto, ma potrebbe farlo in Florida, non paiono avere la forza di scavalcarlo né possono sommare i loro voti, perché i sostenitori dell’evangelico e ultra-conservatore Cruz sono più vicini a Trump che a Rubio. Ben Carson e John Kasich, unici ancora in lizza dopo il ritiro di Jeb Bush, deluso dalla South Carolina, appaiono ai margini.

In Nevada, le assemblee sono state caratterizzate da un’affluenza record e da molte irregolarità: doppi voti e scrutatori di parte che indossavano t-shirt del magnate dell’immobiliare.

L’appuntamento era un test interessante perché lo Stato del gioco e dei matrimoni facili, spesso repubblicano, conta circa il 40% di ‘latinos’ su una popolazione di oltre 3 milioni di abitanti: la retorica ‘anti-immigrati’ di Trump poteva danneggiarlo, ma a conti fatti non è stato così.

E nel discorso di celebrazione della vittoria lo showman ha affermato che un ispanico su due ha votato per lui e ha ribadito l’intensione di alzare un muro al confine con il Messico (e di mantenere aperto il carcere di Guantanamo, contro le intenzioni di nuovo manifestate dal presidente Obama).

La conta dei delegati – La situazione è molto più avanzata fra i democratici, dove ci sono molti super-delegati che si sono già schierati (e quasi tutti stanno con Hillary) – i super-delegati sono figure di spicco del partito che possono scegliere chi appoggiare in qualsiasi momento. Invece, i numeri sono bassi fra i repubblicani. Queste, comunque, le posizioni (fonte: uspresidentialelectionnews.com).

Democratici: delegati alla convention 4.763, delegati già assegnati 572 – oltre il 12% -, delegati da assegnare 4.191, maggioranza necessaria 2.382. Hillary Clinton s’è finora assicurata 51delegati popolari e 451 super-delegati ed è quindi a 502, quasi a un quarto del cammino; Bernie Sanders s’è conquistato lo stesso numero di delegati popolari (51), ma ha solo 19 super-delegati ed è solo a 70.

Repubblicani: delegati alla convention 2.464, delegati già assegnati circa 150 – circa il 5% -, delegati da assegnare 2.370, maggioranza necessaria 1.237. Donald Trump ne ha un centinaio -, Cruz e Rubio tra i 12 e i 15, John Kasich 5, Jeb Bush 4, Ben Carson 3.

Trump cerca di zavorrare Rubio in ascesa e di affondare Cruz
Prima Ted Cruz, ora Marco Rubio: Donald Trump cerca di mettere fuori gioco i rivali al momento più pericolosi, contestandone il diritto a diventare presidente che la Costituzione riconosce soltanto a chi nasce cittadino americano. Cruz è nato in Canada da padre cubano e madre americana, che poteva, quindi, trasmettergli immediatamente la cittadinanza; Rubio è nato a Miami, da genitori cubani divenuti cittadini americani solo quattro anni dopo (ma chi nasce sul suolo statunitense è automaticamente cittadino, valendo lo ius soli).

Gli esperti di diritto sono inclini a ritenere che sia Cruz che Rubio abbiano i requisiti per divenire presidenti, ma Trump solleva lo stesso la questione (e contro Cruz c’è pure una causa in corso nell’Illinois).

‘Clinton vs Bush’ la rivincita non si farà
Adesso, è definitivo: la rivincita del 1992, ‘Clinton vs Bush’ 2, non si farà. Jeb Bush, figlio e fratello del 41° e del 43° presidente degli Stati Uniti, s’è arreso all’evidenza – la gente non lo vuole proprio – e ha abbandonato la corsa alla nomination, dopo le primarie repubblicane in South Carolina del 20 febbraio. Non ci sarà un terzo Bush alla Casa Bianca: gli elettori americani non hanno voglia di remake.

Certo, il ‘pollice verso’ nei confronti di Jeb Bush suona ferale pure per Hillary Clinton, che ha sì vinto le assemblee del Nevada fra i democratici, ma non ha stravinto (52 a 48%), dopo avere, invece, straperso le primarie nel New Hampshire il 9 febbraio. Ex first lady, ex senatrice, ex candidata alla nomination, ex segretario di Stato, Hillary è quanto di più ‘già visto’ non si può.

Eppure, a rileggere le cronache, anzi le previsioni, del giugno scorso, otto mesi or sono, il match ‘Clinton vs Bush’ 2 sembrava un copione ormai scritto, quasi inevitabile. Invece, è andata diversamente.

Ma se la campagna di Jeb non è mai davvero decollata e se le sue prestazioni sono sempre state scialbe, specie nei dibattiti televisivi, la macchina di Hillary s’è grippata a inizio anno, dopo un autunno fantastico.

Adesso, per scrollarsi di dosso definitivamente il suo rivale Bernie Sanders, il senatore del Vermont ‘socialista’ che, a 75 anni, ha dalla sua i giovani e, soprattutto, le donne ‘under 50’, la Clinton deve vincere alla grande in South Carolina sabato 27 e di uscire bene dal Super-Martedì. Può farcela. Ma dopo Trump non le darà quartiere.

di Giampiero Gramaglia

Giampiero Gramaglia, ex direttore dell’Ansa, è consigliere per la comunicazione dello IAI
Questo articolo e’ stato originariamente pubblicato da Affari Internazionali 
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