La depressione dei bond: le promesse non mantenute del 2023

Dopo un 2022 drammatico, il consenso per quest’anno era che il mercato avrebbe registrato il ritorno delle obbligazioni. Nove mesi dopo, quell'ottimismo non si è concretizzato poiché quasi tutte le categorie del reddito fisso registrano rendimenti totali negativi. E per i prossimi mesi...

di Pietro Ventani

Dopo un 2022 drammatico, il consenso per quest’anno era che il mercato avrebbe registrato il ritorno delle obbligazioni. Nove mesi dopo, quell’ottimismo non si è concretizzato poiché quasi tutte le categorie del settore reddito fisso registrano rendimenti totali negativi (vedi grafico). Ancora più importante, ci sono prove crescenti che suggeriscono che il fondo per le obbligazioni potrebbe ancora non essere stato raggiunto.

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Già a febbraio avevamo espresso scetticismo sull’idea di una ripresa del mercato obbligazionario. La persistenza di una forte inflazione e di politiche fiscali di stimolo avrebbero dovuto forzare le decisioni della Fed, creando condizioni sfavorevoli per gli investitori in bond. All’indomani della crisi della Silicon Valley Bank, abbiamo ritenuto che la decisione della Fed di iniettare liquidità nelle banche avrebbe diluito la loro capacità di controllare l’inflazione, lasciando loro nessun’ altra scelta se non quella di aderire a una politica basata su un “più alto livello dei tassi di interesse più a lungo”. Si prevedeva che ciò, a sua volta, avrebbe esercitato una pressione al ribasso sia sui mercati obbligazionari che su quelli azionari, ed è proprio ciò che abbiamo osservato.

In questo frangente, molti investitori si stanno chiedendo: cosa servirebbe alla Fed per invertire la rotta e attuare tagli significativi dei tassi?

Il catalizzatore più ovvio potrebbe essere un calo dell’inflazione al di sotto, diciamo, del 3%. Un simile sviluppo potrebbe fornire alla Banca centrale americana la giustificazione per un  allentamento.

Ma date le persistenti pressioni sui prezzi derivanti dalle quattro D: debito, demografia, deglobalizzazione e decarbonizzazione, ciò potrebbe richiedere molto tempo.

Un altro catalizzatore per i futuri tagli dei tassi potrebbe essere un aumento rapido e sostenuto della disoccupazione. Tuttavia, questo esito appare improbabile nel breve termine, data l’interazione tra tendenze demografiche e politiche fiscali espansive che continuano a sostenere le condizioni di lavoro. Infine, c’è la possibilità di un qualche evento improvviso sul fronte bancario/creditizio. Tuttavia, anche in questo caso la funzione di reazione della Fed potrebbe essere quella di espandere la liquidità anziché tagliare i tassi, come abbiamo osservato durante la crisi della SVB.

Inoltre, ci sono altri motivi convincenti che spingono la Fed a mantenere l’attuale rotta. Garantire la domanda di debito pubblico statunitense, sia a livello nazionale che internazionale, è una priorità fondamentale. La Fed riconosce che se la domanda dovesse diminuire, potrebbe dover intervenire ed espandere nuovamente il proprio bilancio. Inoltre, tassi più alti sono fondamentali per sostenere il dollaro, un obiettivo in linea con il panorama geopolitico emergente in cui un paese “forte” è inevitabilmente legato a una valuta “forte”.

Coloro che sono rialzisti sulle obbligazioni potrebbero dover avere molta pazienza, poiché un ritorno all’era dei tassi ultra-bassi non è all’orizzonte a breve, e forse nemmeno mai. Questo cambiamento è ancora più impegnativo per le classi di attività a lunga scadenza come il Private Equity e il Venture Capital, che hanno beneficiato maggiormente del regime precedente. Allo stesso modo, gli appassionati di strategie come la classica allocazione di portafoglio 60/40, o degli investimenti indicizzati passivi (Index Funds) potrebbero dover ripensare a riposizionare i propri portafogli alla luce del panorama economico in evoluzione. Il mondo è cambiato e non torneremo al 2019.

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