Pisapia fuori, Renzi logorato (nel Pd), resta Bersani: “Ci vuole un nuovo ’68”

Matteo non ha ancor tirato le somme dell'astio generale contro di lui. Per esistere, deve farsi un suo partito, alla Macron.

«Di fronte all’umiliazione di una intera generazione, mi stupisco che non sia ancora partito un nuovo Sessantotto. Allora noi contestavano le tre “emme”, mestiere, moglie, macchina, come qualcosa di antico. Oggi sono diventate un obiettivo, spesso un miraggio». Pier Luigi Bersani, nel suo studio alla Camera, parla di Renzi, e Padoan, della tensione tra Mdp e governo. Manda un messaggio a Gentiloni: «La fiducia sulle banche l’abbiamo votata, ingoiando un altro boccone amaro, perché non siamo avventurieri e, come dissi già nel 2011 alla caduta di Berlusconi, non vogliamo guadagnare qualcosa come partito sulle macerie del Paese. Ma se pensano a una manovra d’autunno di sgravi e bonus senza investimenti occhio che casca l’asino…».

Vede un nuovo Sessantotto?

«Prima di ogni altra cosa il governo deve spazzare via le distorsioni e le speculazioni su tirocini e stage per i giovani a 300 euro al mese. Se restano così, le imprese non li assumono, neanche col massimo degli sgravi. Nel ’68 l’economia tirava, ma per noi si pose un problema di libertà e di dignità. Questi temi stanno tornando».

Per ora i giovani votano 5 stelle o stanno a casa.

«Il problema è che Grillo non li porta da nessuna parte. Ma non gioisco dei fallimenti del M5S, perchè cresce la sfiducia».

Il leader dei laburisti Corbyn i voti dei giovani li ha presi. Voi come farete?

«Con proposte dirette come frecce. Stop allo sfruttamento dei giovani, nuove norme contro i licenziamenti, stop all’allungamento dell’età pensionabile perchè siamo andati troppo oltre e l’aspettativa di vita sta rallentando. Risposte precise ai 12 milioni di italiani che faticano ad accedere alle cure mediche».

Eravate sponsor di Gentiloni. Idillio finito?

«Al netto dello stile, ci ha dato parecchie delusioni. Ha seguito pedissequamente la linea del predecessore. Penso ai voucher, e ora a questa vicenda inaccettabile sulle banche. C’era un accordo per far pagare pegno ai responsabili di quegli istituti e per risarcire una quota più ampia di obbligazionisti. Poi è arrivato un niet incomprensibile. Per questo voteremo contro, e ci devono ringraziare per l’ok alla fiducia».

Tornate a essere quelli dei penultimatum come ai tempi del Pd?

«Nel Pd alla fine siamo arrivati al dunque… lo stesso vale per il governo: in questi giorni sento da Renzi ricette che non avranno mai il nostro voto, come fare altro debito per ridurre le tasse in modo indiscriminato anche ai ricchi. Una ricetta di tutte le destre, rinnegata persino da Reagan perchè inefficace».

Il ministro Padoan si è smarcato in modo plateale.

«Alla buon’ora! Un ministro del Tesoro deve saper dire basta. In questi anni di “alt” non se sono arrivati abbastanza. Tutti i margini di flessibilità ottenuti finora, accollandoci in cambio gli immigrati e accettando regole demenziali sulle banche, sono stati buttati in bonus e sgravi. Zero investimenti. Se Gentiloni mette il veto sul Fiscal compact noi ci stiamo. Ma per fare cosa? Io ho in testa un piano di investimenti diretti e indiretti, dalla manutenzione del territorio alla sanità, dalla digitalizzazione all’efficienza energetica. Calenda dice cose simili, bene. Facciamo un piano e proponiamolo all’Europa, chiedendo margini per realizzarlo».

Volete arrivare a rompere col governo sulla manovra?

«Se siamo in maggioranza devono ascoltarci. Ci sarà una nostra proposta, vediamo cosa portiamo a casa. Per risvegliare gli elettori delusi, servono idee, non giochi politicisti».

È stato Pisapia a frenarvi sulla crisi di governo?

«Tra noi ci sono sfumature e pensieri diversi, ma leggo di contenziosi tra D’Alema e Pisapia e il sottoscritto che non esistono. Siamo tutti impegnati a costruire un nuovo soggetto politico progressista, popolare, di centrosinistra, alternativo al renzismo, che non si alleerà mai con la destra. L’obiettivo è chiaro: nessun cartello elettorale, chi ci vota sottoscrive la promessa di una nuova forza politica. Sul governo decideremo tutti insieme».

Pisapia vorrebbe volti nuovi. C’è il problema della ricandidatura dei vecchi leader?

«Questo lo dice Renzi, non Pisapia. Nel vocabolario di Rignano ci sono molte “P”, come potere e poltrone. Mancano la “C” di coerenza e la “D” di dignità. È meschino pensare che ci siamo mossi per tenerci i posti. La mia ambizione è mettere in moto forze nuove. Se parte il movimento mi metto in coda, non ho bisogno della prima fila».

Renzi scrive che la sostituzione di Letta a palazzo Chigi è stata una richiesta della minoranza Pd.

(sorride). «Ma c’è ancora qualcuno in giro che può credergli a quest’uomo qui?».

Fonte: La Stampa

***

«Non penso nemmeno lontanamente di candidarmi alle prossime elezioni»: Giuliano Pisapia, promotore di Campo Progressista ed ex sindaco di Milano, sgombra il campo dagli equivoci parlando a Milano ad un convegno sulla democrazia nel lavoro organizzato dalla Filt-Cgil. «Io adesso ho un impegno a cui credo ma non ho incarichi istituzionali e non ambisco a nessun ruolo», ha spiegato alla platea stupefatta.

Pisapia è stato più volte additato nelle ultime settimane come un possibile catalizzatore di voti per la sinistra scontenta di Renzi, soprattutto per il Movimento Democratico e Progressista (Mdp). Ma Ciccio Ferrara, vicepresidente di Articolo 1 – Movimento Democratico e Progressista a Montecitorio e tra i promotori di Campo Progressista, non reagisce male, tutt’altro.

 «Con le sue parole Pisapia ancora una volta dimostra che in politica serve grande generosità. Sebbene sia ancora prematuro ragionare sulle candidature- ha spiegato Ferrara- apprezziamo le parole di Pisapia perché dimostrano, se ce ne fosse ancora bisogno, che è la persona giusta per guidare la ricostruzione di un campo largo del centrosinistra che può ambire a governare il Paese segnando una netta discontinuità con le politiche economiche e sociali degli ultimi anni».

E anche dal fronte Orlando (Andrea) arrivano segnali positivi: «È necessario continuare a sostenere la necessità di aprire un serio fronte di dialogo sia con Giuliano Pisapia che con tutte quelle forze, quelle associazioni, quei corpi intermedi e quei pezzi di società che sono purtroppo scomparsi in questi anni dalla narrazione e dall’agenda politica del nostro partito», dice Marco Sarracino, portavoce nazionale della mozione Orlando.

L’ex sindaco di Milano, che da 15 giorni evita le interviste «perché non sempre si ha qualcosa di interessante da dire e anche perché bisogna evitare di rispondere alle polemiche» ha osservato che in Italia «aumenta chi fa volontariato e diminuisce chi fa politica nei partiti, perché c’è sfiducia. Si deve superare questa sfiducia cercando di dare risposte ai problemi anche se non sempre è possibile. Ma quantomeno l’ascolto delle persone e l’impegno a dare una risposta diventa necessario».

La sua ricetta? «L’unico modo per evitare che le destre e i populismi possano governare è quello di trovare un percorso insieme evitando i personalismi e le polemiche».Per uno degli storici vertici del Pci, Emanuele Macaluso, padre nobile della sinistra, l’intesa con Giuliano Pisapia è l’ancora di salvezza per mantenere il Pd nell’alveo del centrosinistra. «L’accordo con Pisapia è l’unico argine alla deriva del Partito democratico», ha detto a La Presse.

«Credo che un conto sia candidarsi, un conto sia svolgere un’azione politica e guida di indirizzo, cosa che Giuliano Pisapia sta facendo. La decisione di candidarsi sarà sua, intanto è in campo e questo lo giudico positivo»: è il commento di Giuseppe Sala. «Non so se intende o non intende candidarsi, non gli ho parlato ultimamente», ha aggiunto Sala.

Fonte:  Corriere della Sera

Sul Pd avanza l’ombra di una nuova scissione

– Sul Pd l’ombra di un nuova scissione. A settembre si capirà. Nella cerchia renziana più stretta, la prospettiva è vista con irritata rassegnazione.
La metafora della «tenda» sta diventando pericolosamente virale. Da quando Romano Prodi, fondatore dell’Ulivo, ex premier ed ex presidente della Commissione europea, ha raccontato di avere piantato una tenda simbolica vicino al Pd, intorno al partito di Matteo Renzi è spuntato un vero e proprio camping. Ma non si tratta di un accampamento costruito da dirigenti in sintonia con la leadership renziana: semmai è il contrario. Sono «tende» tirate su da chi si sente in una sorta di limbo, con un piede fuori e uno dentro: spiazzato politicamente ma non ancora sicuro di dovere andare altrove. Sono minoranze che per adesso aspettano di capire se nel «giglio magico» prevarrà l’idea di una formazione tagliata su misura sul leader, senza la possibilità di spazi per i critici; o se il Pd sopravviverà. Ma si comincia a considerare seriamente la possibilità di una nuova rottura: un po’ voluta, un po’ subìta.
Le trattative
Qualcuno sta già trattando per uscire; altri sperano che alla fine prevalga un progetto più inclusivo. A settembre si dovrebbe capire se sta per consumarsi la seconda scissione in pochi mesi: alla vigilia di un voto regionale in Sicilia che si presenta come una sfida proibitiva; e a pochi mesi da elezioni politiche destinate a ridisegnare i rapporti di forza in Parlamento. «Vedo un pericolo serio. È vero che per il momento lo strappo è stato rinviato. Non è scongiurato, però», spiega uno dei dirigenti storici del Pd. «E la mia sensazione è che Matteo lo stia sottovalutando. Non ha ancora capito che, se ci fosse un’altra scissione, il partito non reggerebbe». Non essere riuscito a ottenere le elezioni anticipate ha reso il vertice più assertivo verso il governo di Paolo Gentiloni. Ha acuito la sindrome del complotto contro il segretario; e acuito la voglia di un’altra resa dei conti.
I tempi
Nella cerchia renziana più stretta, la prospettiva della scissione è vista con una punta di irritata rassegnazione; e in parte anche come una liberazione da oppositori interni vissuti come una fastidiosa zavorra. Esponenti del governo come il ministro Luca Lotti e la sottosegretaria a Palazzo Chigi, Maria Elena Boschi, tendono a vedere l’uscita dal Pd del capo della minoranza più consistente, il Guardasigilli Andrea Orlando, solo come una questione di tempo: sembrano non chiedersi più «se» andrà via ma solo «quando». E questo nonostante Orlando ripeta che cercherà fino all’ultimo di rimanere e di scongiurare la seconda scissione; e che terrà aperto da dentro il Pd un canale di dialogo con la formazione nascente dell’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, perché comunque bisognerà tornare a parlarsi.
Insomma, l’incognita è se almeno in una parte del vertice si stia lavorando per provocare la rottura o per evitarla. Nell’attesa, il «camping» democratico si allarga. Si fanno strada il timore e il sospetto che il vertice punti a sostituire i segretari non renziani nei congressi provinciali dopo l’estate: un assaggio di quello che avverrebbe nelle liste per il Parlamento. La guerra interna che si sta combattendo a livello locale, dall’Emilia Romagna alla Calabria, viene considerata una controprova della resa dei conti in incubazione. Forse si tratta di paure esagerate, sebbene le reazioni alle critiche di personaggi della maggioranza come il ministro Dario Franceschini siano state dure, perfino ruvide. La domanda è se sia frutto degli spigoli caratteriali di Renzi, di una strategia che non esclude un secondo trauma, o di entrambi.
Il progetto
In questo caso la prospettiva, a sentire gli avversari, sarebbe di un segretario tentato a fine estate di archiviare il Pd per lanciare in modo esplicito il proprio partito. Una forza agile, fedele, magari intorno al 15-20 per cento ma in grado di far valere il proprio peso nelle trattative per il governo, in un Parlamento senza maggioranze: sebbene a Bersaglio Mobile su La 7 Renzi abbia ribadito di volere il 40 per cento «per governare da soli»; e dal vertice si smentisca qualunque ipotesi di scissione e si ricordi che a ottobre si celebrerà il decennale della fondazione del Pd: un’occasione per ricucire, non per lacerare. Il problema sarebbe solo di evitare «un congresso permanente» e di rimettere in discussione una strategia e una leadership confermate appena due mesi fa. Dunque, la situazione rimane in bilico: nulla è scontato. Lo stesso Renzi forse intuisce che un partito destinato a perdere altri pezzi viene punito: i sondaggi forniscono più di un indizio.
I tre mandati
C’è chi gli ha fatto notare che, ponendo il limite dei tre mandati parlamentari, rischia di accelerare le dinamiche centrifughe. «Quando Mino Martinazzoli annunciò questa regola per il Partito popolare negli Anni Novanta, in pochi giorni si ritrovò la scissione del Ccd di Pier Ferdinando Casini», ricorda uno dei protagonisti di allora. E evoca il terrore di centinaia di deputati e senatori quasi certi di non essere ricandidati. Ma il tema è ancora più di fondo. La convinzione è che se dovesse prevalere la spinta a escludere le minoranze e dunque a facilitare un altro strappo, non esisterebbe più il Pd. L’uscita di Orlando potrebbe portare con sé quasi per inerzia quella di Franceschini e dell’altro ministro, Graziano Delrio, finora leali alleati del segretario. Prodi pianterebbe la sua «tenda» sempre più lontano dal Pd. L’incontro di ieri a Bologna con Pisapia e Orlando può essere vista come una conferma.
La somma di questi corpo a corpo non promette riconciliazioni, semmai strappi progressivi. Ma l’esito prevedibile è che alla fine non ci sarebbero più il partito, opposto agli scissionisti entrati nell’orbita della nebulosa di Pisapia: ci sarebbe la metamorfosi renziana di ciò che resta del Pd, e dall’altra parte un nuovo Ulivo. Il «camping» diventerebbe un vero agglomerato con ambizioni e consistenza almeno pari a quelli del partito d’origine. Ma Renzi, se vuole, è ancora in tempo per impedirlo. Il problema è questo: se vuole.

Tag

Partecipa alla discussione

2 commenti

  1.   

    DonChi… ma non è che Bersani si sia svegliato troppo tardi o magari stia ancora dormendo (cosa alquanto più che propabile)? O forse è vittima dei miraggi del deserto stile predoni cinematografici di una hollywood antidiluviana?
    S’è perso per strada Von Hayek, Mises, Muller Armack, Friedman e compagnia cantante.
    Salvo fermando e ferma restando la Germania di Muller Armack e Adenauer… [che (ritengo) vada comunque stimata per la sua determinazione e sempre presunta genuinità d’intenti (tra le altre cose… anche il Codice Camaldoli – per molti versi filo conduttore dell’apporto democristiano alla costituente – era ispirato ad una economia sociale di mercato… quella oggi del tutto plasmata sulle esigenze delle oligarchie burocratico-centriche mondialiste… giusto per utilizzare degli eufemismi)…] quel che è stato dall’avvento del concetto federalista delle entità statuali, in un connubbio di sovrastrutture istituzionali sempre più marcatamente non leggittimate da alcuna sovranità popolare, forse l’avrà interpretato come un ineluttabile segno del destino verso il quale ora vorrebbe mettere una pezza… salvo poi (nuovamente) accorgersi che non vi potrà essere pezza troppo grande capace di rattoppare il “buco” di emergenza democratico-sociale che tale e tali connubbi, sviluppatisi nel tempo, siano stati in gradi di creare.
    Tutti a rincorrere le chimere o a contar gli asini che volano per l’aere.
    Peccato che non serva a nulla chiudere il recinto quando i buoi ormai sono scappati!
    Elmoamf

  2.   

    per la felicità di DONCHI  bersani auspica un nuovo 68. vista però la grande fortuna dello smacchiatore di giaguari io mi aspetto solo un 48