di Lorenzo Lamperti

Celebrazione e revisione. Marxismo con caratteristiche cinesi e riforme di mercato. La Cina ricorda Mao Zedong, tesa tra diversi poli che la nuova era cerca di tenere olisticamente insieme.

A Natale, il giorno prima del 130° anniversario della nascita di Mao, Caixin ha pubblicato un editoriale intitolato «Rivedere il pensiero basato sulla realtà». Prima che scattasse la censura a oscurarlo, l’articolo del principale media economico cinese proponeva un parallelo con la fine degli anni Settanta. Il governo continuava a insistere che «la tendenza era ottima, e stava migliorando di giorno in giorno», nonostante l’economia fosse in ginocchio dopo la Rivoluzione culturale.

«Fortunatamente, di fronte alla calamità, i leader di allora, tra cui Deng Xiaoping, dimostrarono ferma determinazione, grinta irresistibile e sorprendente saggezza», per «liberare la psiche collettiva della nazione dalla morsa del maoismo», recitava l’editoriale, passando poi a celebrare il terzo Plenum del 1979 quando furono «fatte domande che non si osavano fare prima e si parlò di questioni di cui non si era osato parlare prima». Fu quella l’alba dell’era della riforma e dell’apertura della Cina e della sua modernizzazione economica.

SECONDO L’EDITORIALE poi oscurato, il governo attuale sarebbe troppo «dogmatico» e avrebbe bisogno di «riappropriarsi dello spirito di riforma e apertura per liberare i suoi pensieri». Magari proprio in vista di quel terzo Plenum che irritualmente non si è tenuto entro la fine dell’anno.

Diversi i toni nel discorso di Xi Jinping al simposio dedicato a Mao. Per il presidente, il suo pensiero «è una ricchezza spirituale inestimabile per il Partito e ne guiderà l’azione nel lungo periodo». Secondo Xi, «Mao ha guidato il popolo nel tracciare un percorso per adattare il marxismo al contesto cinese» e i suoi principali meriti sono il perseguimento di tre obiettivi: «Prosperità, ringiovanimento e felicità del popolo».

Nella visione di Xi, vengono attenuati i punti di rottura tra il periodo di Mao e quello di Deng, diluiti in un solo grande processo di modernizzazione condotto dal Partito, a sua volta diluito all’interno di una sola grande storia: quella della Cina oltre la Repubblica popolare.

Per completare quel processo, c’è bisogno di un tassello fin qui mancante: Taiwan. «La realizzazione della riunificazione completa con la madrepatria è un corso inevitabile dello sviluppo, è giusto e ciò che il popolo vuole. La madrepatria deve essere e sarà riunificata», ha detto Xi durante il simposio. «Dobbiamo promuovere lo sviluppo pacifico dei legami tra le due sponde dello Stretto e impedire risolutamente a chiunque di separare Taiwan dalla Cina in qualsiasi modo», ha aggiunto.

NON SONO CONCETTI NUOVI, ma arrivano a poco più di due settimane dalle cruciali presidenziali taiwanesi del 13 gennaio. Le frasi di Xi, unite a quelle simili dette a Joe Biden durante il summit di San Francisco a novembre, vengono evidenziate dal Partito progressista democratico (Dpp), quello più inviso a Pechino. Già le elezioni del 2020 hanno dimostrato che più la Cina mostra i muscoli e più il Dpp ne trae vantaggio politicamente.

Ma la visione di Xi è olistica anche su questo fronte. E la postura su Taiwan non è ritenuta in contraddizione coi precetti espressi dal leader alla Conferenza centrale sugli Affari esteri conclusa ieri. Gli sconvolgimenti globali non hanno attenuato la proposta cinese, ma anzi l’hanno fatta più ambiziosa, come dimostra il crescente ruolo giocato in Medio Oriente.

Belt and Road sul fronte commerciale (con meno progetti a debito e più digitale), iniziativa di sicurezza globale sul fronte politico, iniziativa di civilizzazione globale sul fronte retorico: i tre pilastri della politica estera di Xi confluiscono ancora una volta nella visione di «umanità dal futuro condiviso». Condivisa deve essere anche la visione della Cina sul suo presente. E sul suo passato.

Fonte: Il Manifesto