Poletti: “Pensioni da ripensare. Serve flessibilità”

«Sono contento che la disoccupazione giovanile sia scesa al 40 per cento e non sia più al 42. Sarei più contento se scendesse ancora, diciamo al 37 per …

«Sono contento che la disoccupazione giovanile sia scesa al 40 per cento e non sia più al 42. Sarei più contento se scendesse ancora, diciamo al 37 per cento. Ma sempre di numeri alti parliamo. E allora c’è un altro pezzo di riforma del lavoro che bisogna fare». Camicia bianca, abbronzatura discreta, Giuliano Poletti ha sulla scrivania gli ultimi dati dell’Istat. Aveva detto di non voler parlare di pensioni, perché di «carne al fuoco ne abbiamo già parecchia». Ma quando arriva la domanda non si tira indietro. Perché – al di là di percentuali, tabelle e regole sui contratti – il vero tema è questo. E lui lo sa.

Ministro, lei dice che manca ancora un pezzo di riforma. Intende i quattro decreti delegati del Jobs act?
«Anche quelli ma non solo. Bisogna reintrodurre un certo grado di flessibilità sulle pensioni. Perché tenere le persone dentro le aziende è uno dei fattori che impedisce ai giovani di trovare un lavoro. E una delle cause per cui le aziende stesse faticano a tenere il passo con un mondo sempre più veloce».

 Finora, però, la linea del governo è che la flessibilità deve essere a costo zero per lo Stato. Il lavoratore esce prima ma solo a patto di prendere una pensione molto più bassa.

«Secondo me non deve essere per forza a costo zero, le penalizzazioni non possono essere insostenibili. Bisognerà fare un ragionamento complessivo nel governo, tenendo a mente che quello non è solo un intervento sulle pensioni. E che, come obiettivo laterale ma non meno importante, ha quello di aiutare l’occupazione giovanile».

Quale potrebbe essere una modifica sostenibile per i conti dello Stato?
«Non si può tornare alle regole che avevamo prima della legge Fornero. Vedremo, discuteremo. E credo che, in termini nuovi, bisogna riprendere in mano anche la questione della staffetta generazionale».

Se ne parla fin dai tempi del governo Letta. Ma alla fine non se ne fa mai nulla, perché costa molto oppure è troppo complicato. Perché stavolta dovrebbe andare diversamente?
«Perché sulle riforme dobbiamo accelerare. Non dobbiamo lasciarci sfuggire l’occasione di un quadro generale che sta finalmente migliorando».

Bastano i nuovi dati su occupazione e Pil per dire che il peggio è passato?
«Quei numeri ci confermano una ripartenza che, certo, non ha il ritmo che tutti vorremmo ma segnano anche la fine del periodo più difficile dal Dopoguerra in poi. E certificano l’aumento dell’occupazione stabile, che noi avevamo già anticipato negli ultimi mesi con i nostri dati sulle comunicazioni obbligatorie»

Crescono gli occupati, cala la disoccupazione. Ma ci sono anche dati meno incoraggianti come l’aumento degli inattivi e il calo degli investimenti. Come mai?
«Usciamo da una crisi di sette anni. È inevitabile che si senta ancora la coda della recessione e ci siano numeri apparentemente contraddittori. Adesso di Grecia non si parla più ma tre mesi fa sembrava la fine del mondo. Questo, ad esempio, sugli investimenti può aver influito».

Il presidente di Confindustria dice che il dato è positivo ma il merito è dei famosi fattori esterni e cioè…
«Non è solo merito del calo del prezzo del petrolio e di Mario Draghi. I fattori esterni aiutano ma da soli non bastano. Le riforme le abbiamo fatte».

Susanna Camusso invita a fare attenzione alla propaganda e chiede a Renzi di tornare con i piedi per terra.
«E lui i piedi per terra ce li ha: non abbiamo bisogno di enfatizzare ma nemmeno di autolesionismo. Resta il fatto che stiamo colmando progressivamente la distanza con gli altri Paesi europei».

Ammetterà che in questi mesi il governo ha avuto una certa ansia da comunicazione.
«Sono stati i giornali a chiederci di diffondere ogni mese i dati sull’occupazione che prima venivano dati ogni tre mesi. Adesso ci dite che ne diamo troppi. Per carità, liberi di cambiare opinione, però…».

Come è stato possibile fare quell’errore la settimana scorsa? Oltre un milione di contratti cessati non presi in considerazione.
«A chi fa può capitare di commettere errori, come ministro me ne assumo la responsabilità. Entro pochi mesi, però, cominceremo a diffondere una comunicazione coordinata, mettendo insieme i dati del ministero, dell’Istat, dell’Inps e dell’Inail».

Avete deciso come modificare il taglio dei contributi per le assunzioni a tempo indeterminato?
«La discussione è ancora lunga. Credo che, facendo i conti con le risorse disponibili, sia comunque necessario garantire lo sconto a tutte le assunzioni stabili».

Quindi non solo per le assunzioni aggiuntive o per quelle nel Mezzogiorno, come pure era stato ipotizzato. Mi sta dicendo che ridurrete progressivamente la durata dello sconto rispetto ai tre anni di adesso?
«L’obiettivo che ci poniamo è chiaro: il tempo indeterminato deve tornare a essere il modo ordinario di assumere e quindi costare strutturalmente meno degli altri contratti».

E sulla sorveglianza dei lavoratori con le telecamere, nodo degli ultimi decreti sul Jobs act, come finirà?
«L’importante è che la soluzione garantisca certezza di regole e pieno rispetto della privacy ».

Par di capire che la mediazione sia questa: le immagini registrate con le telecamere sono utilizzabili anche per il licenziamento. Ma se l’azienda viola la privacy ci sono sanzioni penali.
«È una delle ipotesi, ma la decisione finale la prenderemo collegialmente».

di LORENZO SALVIA

Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Corriere.it

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