L’Unione europea non sparirà, ma si avvia a un inesorabile declino glaciale

Crisi economiche, terrorismo, immigrazione, egoismo politico (soprattutto tedesco), disoccupazione, crescita scarsa e sforzi pietosi nella collaborazione militare: l’Ue vulnerabile rischia grosso nei prossimi due anni. Nel suo poema …

Crisi economiche, terrorismo, immigrazione, egoismo politico (soprattutto tedesco), disoccupazione, crescita scarsa e sforzi pietosi nella collaborazione militare: l’Ue vulnerabile rischia grosso nei prossimi due anni.

Nel suo poema del 1898 “Aspettando i barbari”, il poeta greco Constantine P. Cavafy descrive un ordinamento politico che inventa e ingigantisce minacce straniere nel tentativo di puntellare le sue decadenti strutture di potere. Le svogliate élite dominanti ritratte nel capolavoro di Cavafy, con la vacuità dei cerimoniali pubblici e i diffusi presagi di sventura, dovrebbero servire nel 2016 da campanello d’allarme per l’Europa. Che si tratti di terrorismo, immigrazione, estremismo politico sviluppato dall’interno, unità dell’Eurozona, disoccupazione, crescita economica poco brillante o persino difese militari dell’Europa, i governi nazionali e l’apparato burocratico dell’Unione europea a Bruxelles alimentano sempre di più la sensazione di non essere all’altezza delle numerose sfide che piombano ad ogni istante da tutte le direzioni. Questo dovrebbe preoccupare non solo gli europei, ma anche i loro amici e alleati nelle Americhe e in Asia.

Il malessere ha una portata molto più ampia e profonda della stessa Ue, la quale non è da biasimare per tutto quello che avviene o non avviene in Europa. In una certa misura, la questione attiene proprio al declino relativo dell’Europa su scala globale, a causa del quale diventa difficile persino gestire quello che succede nei suoi stessi paraggi. Allo stesso tempo, viene chiamato in causa il più complessivo cambiamento culturale, economico, politico e tecnologico delle società occidentali: un processo che disgrega modelli familiari di vita, indebolisce la fiducia dei cittadini nei loro governanti e fiacca la capacità dei governi di agire con decisione.

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Ciò nonostante, al centro delle preoccupazioni in questo momento c’è l’Unione europea. Le sue risposte inadeguate a una crisi dopo l’altra generano la sgradevole impressione che, pur essendo un’associazione di democrazie ricche, con 28 Stati membri e oltre 500 milioni di abitanti, la Ue sia destinata a rappresentare sempre qualcosa di meno rispetto alla somma delle sue parti. Gli appelli infervorati da parte dei leader politici che vogliono dare la sveglia per un’Unione più efficiente e strettamente integrata – e ce ne sono stati molti nel corso del 2015 – si rivelano troppo spesso semplici parole di ipocrita reverenza nei confronti di un ideale.

Gli sforzi pietosi dell’Unione europea nel campo della collaborazione militare illustrano bene questo problema. È stato nientemeno che Jean-Claude Juncker, il presidente della Commissione europea, a dichiarare in ottobre: «Se guardo alla politica comune di difesa dell’Europa, un mucchio di polli mi appare per contrasto come un’unità di combattimento più coesa».

Questo non vuol dire che l’Europa sia sul punto di cadere in frantumi. Come hanno dimostrato durante la crisi dell’eurozona, e come stanno nuovamente dimostrando di fronte all’emergenza dei rifugiati e dei migranti, i leader dell’Europa hanno un metodo ben collaudato per far fronte a problemi urgenti. Trovano soluzioni che sono temporanee, a malapena soddisfacenti e progettate principalmente allo scopo di mantenere sulla scena lo spettacolo-Ue.

Con questo spirito hanno organizzato tre salvataggi finanziari molto onerosi della Grecia, ma hanno evitato di estirpare l’ortica di una cancellazione globale del debito greco. Hanno, inoltre, creato una semi-unione bancaria, che ha la supervisione comune e un meccanismo comune per la liquidazione delle banche fallite, ma alla quale manca la garanzia comune sui depositi. In entrambi i casi, l’ostacolo principale è rappresentato dalle resistenze politiche nazionali, soprattutto della Germania.

Proprio come la crisi dell’Eurozona ha spaccato l’Unione monetaria tra europei del Nord e quelli del Sud, allo stesso modo l’emergenza dei rifugiati sta dividendo la Ue tra i vecchi Stati membri dell’Europa occidentale e quelli nuovi dell’Europa centrale e orientale.

Il sistema Schengen di libera circolazione delle persone, una pietra angolare dell’integrazione europea, si sta già frammentando sull’asse Ovest-Est. Affinché non riemergano le barriere che separavano le due metà dell’Europa prima del 1989, sarà indispensabile che gli europei occidentali resistano alla tentazione di pensare che starebbero meglio, come nell’era delle Guerra Fredda, in un’Unione di 15 nazioni o ancor meno. Per evitare la disintegrazione completa di Schengen, la Ue sta riponendo le sue speranze – e un impegno finanziario di 3 miliardi di euro – sulla Turchia, nel tentativo di arginare la marea dei rifugiati di guerra e degli immigrati in arrivo dal Medio Oriente, dal Nord Africa e da altrove. Inoltre, sta proponendo di creare una potente agenzia di controllo delle frontiere e di guardia costiera.

La domanda più seria per l’Europa nel 2016 sarà questa: a quali conseguenze bisognerà far fronte se nessuna di queste misure risulterà efficace e se un’altra città sarà colpita dalla furia terrorista come Parigi con gli attacchi del 13 novembre?

Un rischio correlato è che, nonostante il successo dei tradizionali partiti democratici nel risospingere indietro il Fronte Nazionale di estrema destra alle elezioni regionali del 13 dicembre in Francia, i populisti di destra renderanno ancora più soffocante l’assedio alle cittadelle del potere in Europa. Tuttavia, una minaccia ancor più insidiosa alla democrazia proviene senza dubbio dalla tendenza di rispettabili politici europei di centro-destra a prendere in prestito la retorica e le proposte dei loro rivali estremisti. Questa pratica pregiudica la discussione pubblica con la promessa di soluzioni semplici a problemi complicati.

Più che in qualsiasi altro momento dalla sua creazione nel 1957 con il Trattato di Roma, l’Europa appare vulnerabile nell’arco dei prossimi 12-24 mesi a una successione di colpi terribili e di turbamenti. Tutti sono potenzialmente fatali per l’unità della Ue – non ultimo il referendum nel Regno Unito, previsto per la fine del 2017, sull’opportunità di rimanere nell’Unione –, ma non lo sono necessariamente alla sua sopravvivenza in quanto tale.

Come lo Stato immaginario di Cavafy, o il Sacro Romano Impero che durò per mille anni prima che Napoleone ponesse fine alla sua agonia nel 1806, la Ue potrebbe anche non disintegrarsi ma piuttosto scivolare in un declino glaciale, con le sue élite politiche e burocratiche che continuano fedelmente a osservare i riti di una confederazione priva di potere e rilevanza.

Non è un risultato desiderabile da qualunque europeo con un grano di buon senso. Tuttavia, oggi non appare più inconcepibile.

di Tony Barber

Questo articolo è stato originariamente pubblicato dal Financial Times e tradotto dal Sole 24 Ore

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