Brexit, Cameron strappa l’accordo. Referendum in Gran Bretagna il 23 giugno

Nigel Farage, leader degli euroscettici britannici, boccia l’intesa Cameron-UE definendola “patetica”. “Il voto referendario sarà un’occasione d’oro per sganciarsi dall’Unione europea”. “Il referendum si terrà il 23 giugno …

Nigel Farage, leader degli euroscettici britannici, boccia l’intesa Cameron-UE definendola “patetica”. “Il voto referendario sarà un’occasione d’oro per sganciarsi dall’Unione europea”.

“Il referendum si terrà il 23 giugno e raccomandiamo di votare a favore della permanenza nell’UE riformata”. Lo ha annunciato il premier David Cameron all’uscita dalla riunione di Governo tenutasi nella tarda mattina di sabato per esaminare l’accordo raggiunto con l’UE venerdì sera. La Gran Bretagna, ha affermato, sarà “più sicura, più forte e più prospera in un’Europa riformata” di quanto lo sarebbe uscendo.

Un accordo che non convince i contrari britannici alla permanenza del Regno Unito in Europa. Tra i più agguerriti c’è Nigel Farage: ha bollato l’accordo come patetico. Già nei giorni scorsi il leader del partito fortemente euroscettico UKIP aveva sottolineato come le richieste avanzate dal primo ministro a favore della Gran Bretagna per tentare di evitare l’uscita del paese dall’Unione fossero limitate. Appreso dell’intesa raggiunta a Bruxelles ha ribadito ancora una volta che il referendum sarà un’occasione d’oro per sganciarsi dall’Unione europea.

David Cameron dovrà fare i conti anche con le divisioni all’interno del suo stesso partito dove l’accordo non è stato accolto unanimemente. Il ministro della giustizia Michael Gove, per esempio, ha detto che continuerà a fare campagna perché il paese voti per l’uscita dall’Unione. Sulla stessa lunghezza d’onda, riferisce la BBC, si sarebbero anche: Iain Duncan Smith (Lavoro), John Whittingdale (Cultura) e Chris Grayling. La loro opinione non corrisponde però a quella espressa dalla maggioranza di Governo. E ora si attende che a sciogliere la sua riserva sia Boris Johnson, il popolare sindaco conservatore di Londra.

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Dopo giornate estenuanti di trattative, il premier inglese incassa  un’intesa che gli permetterà di sostenere attivamente il ‘no’ alla Brexit e di tenere, con ogni probabilità, il referendum già il prossimo 23 giugno.

Porta a casa un accordo, e visto il tenore delle discussioni non era affatto scontato, strappa alcune concessioni, ma senza trionfare. Dopo due giornate di trattative estenuanti, il premier britannico, David Cameron, torna in patria con in tasca un’intesa che gli permetterà di sostenere attivamente il ‘no’ alla Brexit e di tenere, con ogni probabilità, il referendum già il prossimo 23 giugno. Missione compiuta dunque, anche se con qualche rinuncia. Per giungere al risultato, Cameron ha dovuto cedere su alcune delle sue richieste. Meno lungo di quanto Londra avrebbe voluto il periodo di possibile applicazione di taglio dei benefit per i cittadini degli altri Paesi Ue (sette anni invece di 13), retroattività per l’indicizzazione dei “child benefit” soltanto dal 2020 e nulla di fatto pure per il desiderio di Londra di potere bloccare le decisioni sgradite dei Paesi dell’Eurozona. Bene invece, per Cameron, la conferma di una futura modifica dei Trattati e la specifica sulla libertà di Londra di sottrarsi ad una “ever closer union”.

“Credo che sia abbastanza per raccomandare che il Regno Unito rimanga nell’Unione europea, prendendo il meglio dei due mondi”, ha commentato a fine vertice il premier britannico, dicendosi “molto grato”, nei confronti degli altri leader che “sono stati straordinariamente pazienti e hanno mostrato grandissima buona volontà”. Io “non amo Bruxelles, amo la Gran Bretagna e il mio lavoro è proteggere il mio Paese”, ha sottolineato Cameron, assicurando che grazie all’accordo di questa sera Londra “sarà fuori da un’unione sempre più stretta, fuori da un super-stato europeo e non adotterà mai l’euro”.

L’accordo raggiunto “rafforza lo statuto speciale del Regno Unito nell’Ue” e “affronta tutte le preoccupazioni di Cameron ma senza compromettere i nostri valori fondamentali”, ha sostenuto il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk ad accordo raggiunto. “Ora sta al popolo britannico”, ricorda il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, secondo cui “l’accordo garantisce il mutuo rispetto tra gli Stati”, assicura che “il mercato unico resti intatto” e che “nessuno possa bloccare gli Stati che vogliono integrarsi di più”.

“È un buon accordo per la Gran Bretagna e per l’Ue”, si è detto convinto anche il premier italiano, Matteo Renzi. La battaglia di Cameron, sottolinea, lancia una necessaria riflessione su “cos’è l’Europa perché se non non ripartiamo per un’Europa innovativa brillante, affascinante e dinamica perdiamo la sfida con la storia”.

A portare all’accordo, una surreale giornata fatta di attese e bilaterali incrociati ad oltranza. L’idea iniziale era quella di sedersi intorno ad un tavolo alle 11 per una english breakfast risolutiva, ma ci si è dovuti presto arrendere a trasformarla in un brunch, poi in un lunch e infine in una dinner, iniziata soltanto alle 20,30. Troppe le rimostranze di ognuno su qualche punto della proposta per puntare diretti all’accordo. Meglio, prima della riunione a ventotto, tentare di risolvere le questioni una ad una in confronti diretti. Facile a dirsi, molto meno a farsi.

Nessuna delle capitali si è dimostrata disposta a cedere senza dare battaglia. A cominciare dal fronte dell’est, preoccupatissimo per i tagli proposti da Cameron in fatto di welfare. Per prima cosa c’era la questione del taglio dei benefit per i lavoratori di altri Paesi Ue trasferitisi nel Regno Unito. Nel tentativo di riguadagnare consensi in patria, Cameron, con un colpo di coda finale, ha alzato il tiro e tentato di rilanciare sulla possibile durata della misura: stop ai benefit per sette anni, prolungabili per due volte di ulteriori tre anni (13 anni in tutto), ha insistito il premier britannico. Ma la richiesta ha incontrato una resistenza altrettanto strenua da parte della Commissione europea, pronta ad arrivare fino ad un massimo di complessivi 7 anni, ma soprattutto da parte del gruppo di Visegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia) che chiedeva non si andasse oltre i 5 totali. A spuntarla è stato l’esecutivo comunitario che è riuscito a fare convergere i ventotto sulla sua ipotesi: 7 anni di possibile sospensione ‘one shot’, senza possibilità di rinnovo. Questa parte dell’accordo (la più sostanziale) è comunque vincolata al passaggio al Parlamento europeo, che ha chiarito di non poter garantire in anticipo alcun via libera.

Il premier britannico ha dovuto cedere qualcosa anche sul taglio dei “child benefit”, una (piccola) parte dei quali vola fuori dal Regno Unito, a vantaggio dei figli di immigrati Ue, rimasti nel Paese di origine. Londra ha deciso di indicizzarli al costo della vita nello Stato in cui il bambino vive e avrebbe voluto farlo da subito in modo retroattivo, anche per gli assegni che già vengono emessi. Ma il blocco dei Paesi dell’Europa dell’est si è messo di traverso, capitanato dalla Polonia (che gode di oltre il 60% dei benefit concessi a cittadini non britannici), e l’ha in parte spuntata. Il taglio scatterà da subito, ma soltanto per i nuovi arrivi, mentre dal 2020 potrà essere esteso a tutti i benefit, anche retroattivamente.

Arduo è stato anche giungere ad un accordo sulla governance economica. Il Regno Unito sperava di ottenere che il settore finanziario di Londra potesse attivare una sorta di meccanismo di salvaguardia per “difendersi” quando riteneva di essere danneggiato da una decisione presa dai Paesi dell’Area euro. Richieste che hanno fatto salire sulle barricate diversi Paesi, Italia inclusa, guidati da Francia e Belgio, fortemente contrari ad un diritto di veto per il Paese. Londra è comunque riuscita ad assicurarsi che il Consiglio debba ridiscutere un atto, qualora anche un solo Stato esterno all’unione bancaria dimostri con una opposizione ragionata di essere danneggiato rispetto ai Paesi dell’area euro.

Piccola vittoria per Cameron sul fronte della modifica dei Trattati. Il premier britannico è riuscito a portare a casa almeno che nell’accordo sia messo nero su bianco che, alla prossima “apertura” dei Trattati, quello che ora è stato concordato con un accordo intergovernativo, sia inserito nel testo.

Accontenta invece un po’ tutti la soluzione di compromesso trovata sul capitolo “filosofico” della questione britannica, quello legato alla definizione dell’Ue come di una “unione sempre più stretta” di Stati. Cameron insisteva perché si specificasse che gli Stati non sono obbligati ad una maggiore integrazione ma ai Paesi del nocciolo duro dell’Ue non piaceva “l’intromissione” britannica nella volontà di integrazione altrui. Il testo finale, dunque, specifica chiaramente “il riferimento ad una unione sempre più stretta non si applica al Regno Unito”. Salvando così capra e cavoli e svincolando Londra pur lasciando liberi gli altri Stati di spingersi oltre nell’integrazione.

Tutto l’accordo è comunque vincolato ad una specifica clausola, inclusa sull’insistenza del Belgio, secondo cui tutto quello che è stato concordato si “autodistruggerà” nel caso i cittadini Ue decidano di votare no al referendum per uscire dall’Unione.

di Letizia Pascale

Questo articolo e’ stato originariamente pubblicato da Eunews.it

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