Giraud: “Europa ostaggio di banche e austerity che alimentano populismi”

L’Europa è ostaggio delle banche. Dell’austerità e dei burocrati ancorati “agli assurdi” parametri di Maastricht. Peggio, i tagli alla spesa pubblica impediscono la transizione ecologica verso una società …

L’Europa è ostaggio delle banche. Dell’austerità e dei burocrati ancorati “agli assurdi” parametri di Maastricht. Peggio, i tagli alla spesa pubblica impediscono la transizione ecologica verso una società post-carbone: “I miliardi risparmiati oggi non basteranno a coprire i danni causati dalle catastrofi ambientali che non vogliamo prevenire”. Pensieri e parole di Gael Giraud, economista francese, consigliere personale – “ma poco ascoltato” – del presidente Francois Hollande, ma anche sacerdote e gesuita. Una vocazione arrivata dopo un brillante inizio di carriera in banca d’affari. Una carriera così veloce da nausearlo dopo avergli aperto gli occhi sul sistema finanziario che definisce “il vitello d’oro dei nostri tempi. Ci affascina, ma non ci sfama”. Per Giraud la transizione ecologica – che dà il titolo al suo ultimo libero, edito da Emi – uo ultimo libro, Transizione ecologica, edito da Emi – e il sistema bancario sono strettamenti legati perché in antitesi, anche se la finanza potrebbe essere la chiave di volta per un futuro migliore, “ma solo se i governi democratici riprenderanno il potere”.

Il calo del petrolio sta accelerando la transizione, ma le motivazione sono solo economiche. Che succederà quando il prezzo tornerà a salire?
Dal lato della domanda, in realtà, il calo del petrolio ha rallentato la transizione energetica perché sono venuti meno gli incentivi a ridurne i consumi da parte delle imprese. Questo, quindi, sarebbe il momento ideale per aumentare le imposte sui prodotti petroliferi, in modo da incitare i consumatori a essere più virtuosi. Invece, per un triste calcolo politico di breve termine i governi europei non osano prendere provvedimenti. Dal lato dell’offerta, invece, la debolezza del petrolio accelera la transizione perché molti giacimenti non sono più redditizi: basti pensare a quanti siti di fracking abbiano chiuso negli Stati Uniti in un anno. E diverse decine di miliardi di euro di investimenti sono state rimandante sine die: di conseguenza nei prossimi 5-10 anni l’offerta di petrolio sarà più bassa del previsto e noi saremo impreparati.

Pensa a un futuro grigio…
La miopia dei governi rende molto difficile il finanziamento della transizione ecologica e condanna l’economia mondiale al disastro. Se non investiamo oggi nelle infrastrutture verdi di cui abbiamo bisogno per andare verso un’economia post-carbone, se il mondo non investe subito per adattarsi alle drammatiche conseguenze della deregolamentazione climatica (dalla penuria d’acqua potabile alle innondazioni delle zone coltivate), i paesi del Sud andranno incontro a disastri umanitari per un decennio. E le centinaia di migliaia di migranti che scappano in Europa ancora a causa della siccità siriana del 2007-2010 diventeranno milioni. I paesi del Nord, invece, senza investimenti, non riusciranno a uscire dalla trappola deflazionistica in cui stanno cadendo. I mercati finanziari hanno responsabilità enormi nelle sofferenze dei poveri e delle classi medie, e responsabilità ancora più grandi per quello che rischiamo di vivere nei prossimi decenni.

La colpa è più dei governi o delle istituzioni finanziarie?
I mercati finanziari occupano un posto smisurato nelle nostre economie: basti pensare che la miopia a breve termine dei mercati è capace di distruggere un paese facendo esplodere il costo di rifinanziamento del suo debito pubblico. E’ il caso della Grecia – per esempio – a cui l’austerità imposta per “far piacere” ai mercati (in modo che permettano ad Atene di avere nuovi prestiti) ha causato una perdita del Pil del 25% in cinque anni, l’equivalente di una guerra civile.

Sul tema delle banche e dell’austerity torneremo, ma intanto per quando riguarda l’ambiente, Cop21 sembra dimostrare una rinnovata volontà di cambiare la situazione. Non è d’accordo?
Il Cop21 è un immenso successo diplomatico, mostra che la comunità internazionale – poco a poco – prende coscienza della gravità delle sfide climatiche ed energetiche. Ora, però, bisogna mettere in opera le promesse fatte a Parigi a dicembre e quindi va finanziata la transizione energetica: dalla ristrutturazione dei palazzi per ridurre la dispersione termica alla mobilità verde, fino alla riduzione delle emissioni da parte dell’industria e dell’agricoltura. Per un paese come l’Italia, un piano del genere costerebbe decine di miliardi di euro l’anno: una piccola somma se confrontata con i benefici di lungo termine. I danni del non fare sarebbero mostruosi.

Con il clima di austerity che aleggia sul Vecchio continente, pare impossibile immaginare investimenti del genere.
Oggi il dramma europeo è quello della deflazione. Il Giappone ci è caduto a metà degli anni novanta a seguito della crisi immobiliare del 1990 e sono più di vent’anni che il Paese è impantanto nelle sabbie mobili senza riuscire a uscirne. Noi ci siamo caduti dopo la crisi finanziaria del 2007-2009 a causa anche dell’eccesso di indebitamento privato. Il problema dell’Eurozona non sono certo i debiti: con una media al 100% del Pil, siamo ancora in una situazione ragionevole (contrariamente agli Stati Uniti e al Giappone) anche se è evidente che né la Germania, né la Francia né l’Italia riusciranno mai ad azzerare i loro debiti. Ma l’errore è proprio quello di inseguire l’austerità dei conti: è proprio quello che non si deve fare in caso di deflazione. Anziché migliorare la salute di un’economia, il Pil scende più velocemente del debito così che il rapporto debito/Pil continua ad aumentare. L’abbiamo visto chiaramente in Grecia, il martire d’Europa. Eppure la storia dovrebbe insegnare qualcosa, soprattutto ai tedeschi che l’austerity l’hanno già sperimentata nel 1930 quando la Repubblica di Weimar sembrava in deflazione. La politica di tagli del Cancelliere Henrich Brunning portò Hitler al potere tre anni dopo. Uno scenario che potrebbe perfettamente ripetersi in Europa: quando si annega nella deflazione, è molto difficile uscire. Di conseguenza le classi medie disperano e finiscono per elggere qualunque populista che prometta un domani migliore. Guardate cosa succede in Austria e Francia.

La Grecia sembra condannata dalla burocrazia europea. Chi sono per lei i veri responsabili?
La situazione attuale è il risultato di un blocco ideologico dei burocrati di Francoforte, Berlino, Bruxelles e Parigi – che si accontendano di applicare delle regole neo liberali senza interrogarsi sulla loro pertinenza – e delle banche. Molto cinicamente, il settore bancario cerca di guadagnare ancora un po’ di soldi prima del fallimento di Atene. D’altra parte non dobbiamo dimenticare che la Bce è capace di mettere in ginocchio un paese tagliando la liquidità alle sue banche. Ed è quello che ha fatto una settimana prima del referendum greco con l’obiettivo di ottenere un voto favorevole alle istituzioni europee. Per fortuna il popolo greco non ha ceduto, ma il governo Tsipras si è arreso. E fino a quando la politica resterà sotto il ricatto delle banche queste continueranno a bloccare ogni tentativo di uscire dalla deflazione.

La deflazione però è nemica delle banche.
Ma per uscirne l’unica strada è quella di una politica economica espansiva e per metterla in opera i governi democratici devono riprendere il potere dalle mani delle banche. Dovremmo quindi andare oltre gli assurdi parametri di Maastricht sul tetto alla spesa pubblica: il limite al 3% del decifit non ha alcun fondamento scientifico e neppure la Germania ha un debito inferiore al 60% del Pil. E’ una semplice convenzione arbitraria di cui dobbiamo sbarazzarci. Per liberarcene, però, serve una vero progetto politico che si sostituisca a questa utopia di un governo burocratico con regole che oggi si incarnano nella Troika e nelle banche. Dovremmo riuscire a coordinarci intorno a un vero progetto di società, avendo il coraggio di mettere in prigione i banchieri fraudolenti e obbligando gli altri a lavorare per l’interesse generale. Uno dei pochi a opporsi a questo sistema è Matteo Renzi.

Lei era critico nei confronti del presidente del consiglio italiano, cosa è cambiato?
Fino a poco tempo fa, infatti, ero molto deluso: si limitava a mettere in opera i vecchi demoni del neo liberalismo, dalla cancellazione del contratto di lavoro a tempo indeterminato alla fine del bicameralismo perfetto (così prezioso e necessario alla democrazione italiana dopo la catastrofe fascista). Ma devo ammettere che mi ha felicemente sorpreso il modo in cui prova ad opporsi al diktat tedesco e al presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker. Mi auguro che quelle di Renzi non siano solo delle “spacconate” e che continui a contraporre il buon senso all’ideologia dell’asse Bruxelles-Berlino. Dobbiamo sperare che Renzi resista fino alla fine e non si arrenda come Tsipras.

Davvero la separazione delle banche commerciali da quelle d’affari potrebbe risolvere tutti i problemi riducendo il loro peso politico?
Le banche sono fragili e deboli, ma hanno un potere ancora enorme. Quando il commissario europeo, Michel Barnier, ha provato a fare passare una legge di separazione a livello europeo si è scontrato con la lobby bancaria. Eppure il Fmi ha appena riconosciuto che il 40% delle grandi banche europee non sono solide: e in effetti hanno bilanci talmente fragili che fallirebbero al minimo shock finanziario. Oggi sopravvivono solo grazie ai prestiti a tassi negativi della Bce. Un shock come quello del 2008 farebbe fallire molte banche europee di sistema con un costo di oltre mille miliardi di euro di perdite sul Pil per 2-3 anni. Da questo punto di vista Matteo Renzi ha avuto ragione ad arrabbiarsi quando Angela Merkel ha rifiutato di sostenere il progetto di garanzia europea dei depositi: è un piano assolutamente necessario perché nessun paese è in grado di garantire i depositi dei suoi cittadini. Neppure la Germania. Solo l’Europa intera potrebbe aiutare un Paese il cui sistema bancario salta. E’ successo in Irlanda e in Islanda. Come è possibile far correre un rischio del genere a delle economie come Germania, Italia o Francia?

Dallo scoppio della crisi si discute della regolamentazione del settore, ma l’argomento resta tabù
Contrariamente a quanto si racconta, regolamentare il mondo della finanza non è per nulla difficile. Basterebbe qualche misura forte per rendere più ragionevole il mercato: per esempio separare davvero le attività bancarie commerciali da quelle d’investimenti, togliendo a queste ultime la garanzia implicita dello Stato per lasciarla solo sui depositi; vietare gli high frequency trading (le operazioni automatiche fatte dai computer) permetterebbe di evitare i rischi di scivolate irrazionali dei mercati (il 50% della trasanzioni finanziarie in Europa sono realizzate dai robot); aumentare le tasse sulle transazioni finanziarie frenerebbe le speculazione e aiuterebbe le casse degli Stati senza ridurre la liquidità dei mercati; regolamentare lo shadow banking è fondamentale perché il mondo bancario dell’ombra rappresenta metà dell’intero settore ed è ancora più pericolosa della metà “in chiaro”.

Come concilia le sue posizione economiche con quelle di sacerdote? Davvero crede che il mondo della finanza possa pentirsi e trovare la retta via?
Il sacerdozio e la mia vita di gesuita mi aiutano a non disperare: continuo a credere che i popoli europei siano capaci di non cedere ai demoni anti democratici e che siano capaci di uscire dall’attrazione dei mercati finanziari. Per questo credo sia necessario dotarsi di un nuovo grande racconto collettivo, di un progetto di società. E’ dagli anni Settanta che all’Europa manca un progetto. E di conseguenza come il popolo ebraico nel deserto, io credo che i nostri genitori siano stati colpiti dal panico degli anni 80 e hanno affidato le loro speranze nel vitello d’oro e nei mercati finanziari, confidando che gli garantisse prosperità. Nel libro dell’Esodo, Mosè fa fondere il vitello d’oro e obbliga gli ebrei e bere l’oro fuso per dimostrargli che l’oro non sfama. Così noi dobbiamo renderci conto che gli attivi finanziari non sfamano nessuno. Una volta usciti da questa fase, potremmo ricostituire la grande recita escatologica capace di ridare agli europei la forza di avanzare verso la terra promessa di una società
post carbone. La chiesa deve contribuire alla costruzione di questa recita. Ed è quello che fa l’enciclica Laudato Sì.

La finanza può redimersi?
E’ una risposta che appartiene solo al mistero della grazia misericordiosa di Dio!

Fonte: La Repubblica

Tag

Partecipa alla discussione

2 commenti

  1.   

    Capire di ambientalismo, o meglio, essere particolarmente sensibili ai temi ambientali, non vuol dire capirne di economia, e il nostro caro Giraud ce lo dimostra in pieno. La riduzione della spesa pubblica da parte di Paesi già pesantemente indebitati, non è dovuta a capricci politici, ma a una recessione profonda che dura da molto tempo, se magari al posto di pensare al petrolio il nostro amico Giraud si fosse posto la domanda da cosa è causata la recessione attuale forse avrebbe distolto lo sguardo dal petrolio e lo avrebbe indirizzato verso la globalizzazione.  

  2.   

     
    …”Gael Giraud, economista francese…”
    …un altro che non ha centrato il bersaglio e la fa fuori dal vaso…