Benetton, fine di un’epoca: i figli lasciano, dissidi sulla strategia aziendale

Fine di un’epoca, se non dal punto di vista sostanziale almeno da quello simbolico: Alessandro Benetton annuncia oggi le proprie dimissioni dal Cda dell’azienda di famiglia. Alla base …

Fine di un’epoca, se non dal punto di vista sostanziale almeno da quello simbolico: Alessandro Benetton annuncia oggi le proprie dimissioni dal Cda dell’azienda di famiglia. Alla base della decisione una netta divergenza sulle strategie del gruppo, avviato a una ristrutturazione.

Alessandro, nato nel 1964, figlio del leader tra i quattro fratelli fondatori, Luciano, e marito della campionessa di sci Deborah Compagnoni, era stato presidente di Benetton Group dall’aprile 2012 al maggio 2014. In questo periodo, aveva combattuto per un rinnovo dell’azienda, con l’introduzione del marchio sportivo Playlife e un rinfrescato rapporto con la rete di vendita.

Sconfitta la sua posizione in un braccio di ferro con altri componenti della famiglia, in particolare con lo zio Gilberto, Alessandro aveva lasciato il posto al duo manageriale Mion-Airoldi e, più di recente, a Francesco Gori, occupandosi della propria Investimenti 21 e conservando un posto in consiglio che, aveva ammesso, gli era servito come «un’occasione per restare un po’ informato». Oggi l’addio definitivo: a quanto sembra, il posto in Cda di Alessandro non verrà preso da alcun discendente diretto di Luciano Benetton, il che fa della data di oggi una tappa nella storia della dinastia.

Tutto era cominciato nelle brume della provincia trevigiana a metà degli Anni Sessanta. Quattro fratelli, Luciano, Gilberto, Giuliana, Carlo, e una rivoluzione tessile che da Ponzano Veneto si dissemina in tutto il pianeta. Il primo punto vendita apre a Cortina d’Ampezzo nel 1966, ma già tre anni dopo si sbarca a Parigi col primo negozio internazionale; e chiunque abbia viaggiato in quegli anni di prima ondata turistica generalizzata ricorda come il marchio fosse diventato quasi ossessionante, dall’Europa all’Asia agli Stati Uniti.

Nell’Italia del centrosinistra e dell’abbondanza, a un passo dal fatale Sessantotto, i pulloverini Benetton, multicolor, facilmente componibili, poco costosi, fatti apposta per le minigonne e per i jeans, diventano una specie di divisa democratica. Perdipiù si comperano in una rete di negozi svelti, facili, in cui entrare senza soggezione, insomma l’esatto contrario delle polverose boutique della mamma. Non fosse bastata la forza oggettiva dell’idea commerciale (nel 1972 nascono i Jeans West, nel ’74 è la volta del marchio Sisley) arriva poi ad amplificarla, dagli Anni Ottanta, una comunicazione pubblicitaria che spazza ogni precedente, almeno per il nostro Paese.

Il deus-ex-machina, con Luciano, è Oliviero Toscani, il fotografo che già aveva scandalizzato i benpensanti (ma pure Pier Paolo Pasolini) con gli inguini e i sederi dei Jeans Jesus: «Chi mi ama mi segua», recitava lo slogan, e anche «Non avrai altro jeans all’infuori di me». Le sue campagne per Benetton sono esempi di «shockvertising».

Sovvertono i pregiudizi e superano di slancio i conflitti, riaffermando il concetto che sta alla base del gruppo, United Colors di Benetton, appunto, inteso non tanto (e non solo) come l’armonizzarsi delle tinte dei pullover, ma come un pacifico accordo fra le razze umane. La società multietnica è agli albori, ma in quelle foto pubblicitarie tutto è preconizzato: bianchi e neri, arabi ed ebrei, perfino angeli e diavoletti, stretti in teneri abbracci. Il prete e la suora che si baciano sulla bocca, la donna nera che stringe un bambino bianco al seno nudo. In qualche modo, il sillabario del politically correct, prima ancora che l’espressione diventi di senso comune.

Via via, il messaggio si radicalizza, sconfina con audacia nella denuncia sociale e politica: il morente di Aids, i vestiti insanguinati del caduto in Bosnia, le facce dei condannati a morte. La cattedrale dove la comunicazione del gruppo viene elaborata si chiama Fabrica, ha sede in una villa del Seicento ripensata da Tadao Ando e diventa una straordinaria accademia per la formazione di nuovi talenti. Con «Colors», la rivista nata nel 1981, scritta in quattro lingue e distribuita in 40 Paesi, un punto di riferimento per i grafici di tutto il mondo, è il pilastro del sodalizio Toscani-Benetton, sul quale nel 2000 cade improvviso il gelo: «Meglio le idee dei pullover», commenta il fotografo.

La famiglia diversifica, si occupa di autogrill e di aeroporti e, nel 2003, decide di lasciare spazio ai manager. Le celebrazioni per la rivoluzione Anni Sessanta del maglioncino culminano, nel 2006, con una grande mostra al Centre Pompidou di Parigi, ma la spinta propulsiva sembra cedere.

Aveva detto Alessandro in una recente intervista a «Libero» che il segreto di Benetton è stato «partire senza soldi. Quando non hai mezzi, sei predisposto al cambiamento e vengono fuori le idee». I quattro fratelli della prima generazione si erano divisi equamente i compiti, ma alla seconda generazione la faccenda si è complicata, e anche se Alessandro non si è mai considerato l’erede designato, e ha fatto le valigie quando la situazione non lo convinceva, di certo nessuno gli ha mai proposto la presidenza della holding, ruolo per cui molti lo vedevano tagliatissimo. Da oggi si apre una nuova fase, dai contorni ancora incerti.

Fonte: La Stampa

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