Russia, è giallo: Putin licenzia a sorpresa capo dello staff, suo fedelissimo dai tempi del Kgb

Il presidente russo, Vladimir Putin, ha licenziato a sorpresa il suo capo dello staff, Sergei Ivanov (nella foto). Lo ha annunciato il Cremlino senza dare spiegazioni dell’allontanamento di …

Il presidente russo, Vladimir Putin, ha licenziato a sorpresa il suo capo dello staff, Sergei Ivanov (nella foto). Lo ha annunciato il Cremlino senza dare spiegazioni dell’allontanamento di uno degli uomini piu’ vicini al leader russo, destinato a nuovo incarico come rappresentante speciale per le questioni ambientali e dei trasporti.

“Il presidente Putin ha decretato di sollevare Ivanov dai suoi doveri come capo dell’amministrazione presidenziale russa”, si legge in un comunicato. A prendere il suo posto, riferisce la Bbc, sara’ il suo vice, il 44enne Anton Vaino.

In un’intervista, il capo di Stato ha spiegato di aver accolto una richiesta di Ivanov, parlando di decisione consensuale. Il 63enne Ivanov e’ stato per anni parte del cerchio magico di Putin, prima come vice premier e ministro della Difesa dal 2001 al 2007, poi, dal 2011 come capo dello staff presidenziale.

E’ membro del Consiglio di Sicurezza russo ed ex agente del Kgb. L’allenza tra i due e’ nata proprio tra le file dell’intelligence alla fine degli anni ’90: quando Putin ne divenne il capo, scelse Ivanov come suo vice e una volta arrivato al potere, questi divene uno dei cinque tra i suoi uomini piu’ fidati.

Se ne parlo’ di lui anche come possibile presidente, nella staffetta con Putin come premier, ma quel posto ando’ a Dmitri Medvedev. Il mese prossimo, i russi saranno chiamati alle urne per le elezioni parlamentari, tra le difficolta’ economiche per le sanzioni occidentali e il calo del prezzo del petrolio. Putin di recente e’ intervenuto, ordinando rimpasti nelle amministrazioni regionali. (AGI)

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Putin: fuori i fedelissimi, la nomenclatura si rinnova

di Anna Zafesova

Il presidente della Federazione Russa Vladimir Vladimirovich Putin ha estromesso dalla carica il capo dell’amministrazione Serghei Borisovich Ivanov e ha nominato al suo posto Anton Eduardovich Vaino. Un avvicendamento al vertice, una nota burocratica che però nel mondo politico russo ha avuto un effetto assai più dirompente della denuncia di «attività sovversive» dell’Ucraina in Crimea, che solo 24 prima sembrava aver messo i due Paesi ex fratelli sull’orlo di una nuova guerra. Nell’intricato mondo del Cremlino il capo dell’amministrazione presidenziale – una sorta di equivalente del chief of staff della Casa Bianca – è importantissimo, forse più del primo ministro. L’amministrazione presidenziale ha infatti sostituito nel sistema di potere postsovietico il Comitato centrale del Pcus (occupa gli stessi edifici nella Piazza Vecchia di Mosca). È lì che si scrivono le leggi da mandare per l’approvazione alla Duma. Lì si nominano i governatori e si manipolano (qualche volta si creano in provetta) i partiti politici.

Il cuore del potere

E’ l’Economato dell’amministrazione a gestire tutto il welfare di deputati, giudici e altri dipendenti di livello federale, dispendando alloggi, dacie, automobili, scorte e pacchetti vacanze. E’ il centro nevralgico della Russia, che lascia al governo propriamente detto la gestione pratica dell’economia. Naturalmente, il capo di questo supergoverno è un personagio strategico, il vero braccio destro del presidente. E Serghey Ivanov lo era più di chiunque altro. Considerato numero due di Putin dal 2000, dal 2001 al 2007 ha ricoperto la carica di ministro della Difesa, il primo non militare – è un generale, ma viene dall’ex Kgb – a guidare l’esercito, in un’evidente commissariamento dei militari di carriera da parte dei servizi segreti. Nel 2008 era stato quotato come delfino di Putin destinato ad abitare il Cremlino per i quattro anni nei quali, secondo la Costituzione, Vladimir Vladimirovich non poteva ricoprire il terzo mandato consecutivo. Alla fine gli è stato preferito Dmitry Medvedev, ma appena tornato al Cremlino Putin ha chiamato al suo fianco come capo dell’amministrazione il suo uomo più preparato e fedele, che molti considerano il suo alter ego.

La scuola del Kgb

Come Putin, Ivanov viene dallo spionaggio estero del Kgb (dove ha fatto però molta più carriera dell’amico, ricoprendo prestigiosi incarichi a Londra), ed è considerato un intellettuale, amante della letteratura inglese (che legge in originale) e del balletto, passione nella quale aveva coinvolto anche Condoleezza Rice, che lo ha sempre descritto come un interlocutore molto duro ma non incline a giocare sporco, «il miglior canale di comunicazione con Putin anche nei momenti più delicati». Come Putin è pietroburghese, un po’ freddo, rigido, ma con improvvisi guizzi di un umorismo un po’ gelido. Le foto in qui i due appaiono insieme sono decine, magri, biondi, impenetrabili, simili come due fratelli. Da un giorno all’altro, quest’uomo cruciale viene licenziato con la formulazione del decreto ufficiale che usa il termine “otstranil”, estromesso. Il nuovo incarico di un peso massimo che si è sempre occupato di sicurezza è quello dell’incaricato speciale della presidenza per l’ambiente e i trasporti. In un linguaggio burocratico che ha conservato intatti dai tempi sovietici le sfumature e le formule, suona come un licenziamento in tronco, anche se Ivanov fa buon viso a cattivo gioco e davanti alle telecamere dice che si era impegnato a restare in carica per quattro anni, e di essere stato lui a chiedere una poltrona meno impegnativa.

Il successore

Nel mondo oscuro della sovietologia – che, come diceva un famoso inviato italiano degli anni Ottanta, si divideva in due scuole, quella che pensava che il Politburò si riunisse il giovedì e quelli convinti invece che facesse la seduta il mercoledì – equivale a un terremoto. E l’identikit del nuovo capo dell’amministrazione non aiuta a risolvere il mistero. Anton Vaino, classe 1972, figlio e nipote dell’alta nomenclatura comunista – il nonno Karl era stato primo segretario del Pc estone ed era stato “estromesso” da Gorbaciov nel 1988 dopo aver chiesto di usare la forza contro i manifestanti che chiedevano democrazia e indipendenza, il padre Eduard è un top manager della Vaz, la fabbrica di auto di Togliattigrad – con formazione da diplomatico, è da anni il capo del protocollo di Putin, e le uniche foto pubbliche nelle quali appare sono quelle dove tiene l’ombrello sopra la testa del presidente. Un burocrate, un apparatchik, un ottimo amministratore che non appartiene a nessun clan e non ha nessuna visione politica: questi sono i primi commenti di chi lo conosce. Un esecutore, totalmente fedele al presidente. «Putin sta sostituendo i vecchi amici con personale di servizio», è stato il commento del politologo Stanislav Belkovsky.

Il nuovo cerchio magico

Qualcosa sui vecchi amici che se ne vanno, sostituiti «da una nuova cerchia che però deve rendersi conto che le loro posizioni sono fragili», l’aveva già sussurrato come ammonimento Vladimir Yakunin, un altro fedelissimo putiniano, licenziato a sorpresa l’anno scorso dalla carica di capo delle ferrovie. Come Ivanov, era amico di Putin quando era uno sconosciuto funzionario del comune di Pietroburgo, e insieme a Ivanov figurava nella lista dei vip russi messi sotto sanzioni dagli Usa dopo l’annessione della Crimea. Entrambi facevano parte del più alto giro del cerchio magico putiniano, consolidato da matrimoni dinastici tra rampolli sistemati nei punti cruciali delle banche e dei consorzi statali . Presi di mira dalle sanzioni occidentali per aprire una breccia nel fronte putiniano e spingere il presidente a più miti consigli.

Il balletto delle poltrone

A quanto pare, la breccia si è aperta. Da almeno tre mesi Putin è impegnato in una risistemazione dei suoi uomini che ha visto una girandola di governatori e capi di agenzie governative estromessi – i governatori vengono licenziati con la straordinaria formula «per la perdita di fiducia» da parte del presidente – e sostituiti da uomini provenienti perlopiù dagli apparati della sicurezza. Contemporaneamente, una serie di arresti e indagini scuote la magistratura: in un sistema dove le tangenti fanno parte dei benefit della carica, le purghe con il pretesto della corruzione sono un modo per liberarsi degli indesiderati. Ieri Putin ha anche nominato una serie di personaggi nuovi nel suo Consiglio di sicurezza. Ma l’innovazione più importante è stata la creazione, quattro mesi fa, della Guardia nazionale, una sorta di superesercito interno, cui la Duma ha concesso poteri quasi illimitati, affidata a Viktor Zolotov, per anni guardia del corpo personale del presidente. Recep Tayyip Erdogan ha lodato Putin qualche giorno fa perché è stato l’unico interlocutore internazionale a non averlo criticato per le purghe e gli arresti di funzionari e generali. Forse perché, su scala minore e strisciante, sta facendo la stessa cosa.

Le elezioni in vista

Putin è famoso per difendere i suoi uomini a oltranza, come aveva fatto anche con il fedelissimo Ivanov quando suo figlio Alexandr aveva investito sulle strisce pedonali una pensionata moscovita, uscendone indenne. Tende a non licenziare i suoi giannizzeri, a parte – appunto – i casi di «perdita di fiducia». Una sindrome da assedio che contraddice l’immagine di indiscusso vincitore di cui Putin gode in Occidente. Ma dalla Russia la situazione appare meno brillante. Perfino i ministri del governo parlano ormai esplicitamente di una situazione economica catastrofica. A settembre si vota per la Duma, e lo scontento sociale per la pesante crisi economica minaccia di trasformarsi in una valanga di voti per i comunisti (infatti molti dei governatori licenziati provenivano dalle regioni dove il partito putiniano Russia Unita aveva percentuali molto basse). I sondaggi indicano una flessione della fiducia dei russi verso le autorità e i media.

La stretta dei servizi

Numeri che restano altissimi per qualunque democrazia occidentale, ma che in un Paese abituato ormai all’86% dei consensi al presidente vengono visti come pericolosi (del resto, solo il 30% dei russi dichiara di non provare timore a esprimere liberamente la propria opinione sul governo). Il pacchetto Yarovaya, una serie di leggi votate dalla Duma che incrementano drasticamente il controllo dei servizi sulle comunicazioni telefoniche e elettroniche dei russi, è stato definito «la fine della libertà» perfino da Edward Snowden, ospite di Mosca dopo la sua fuga dagli Usa. Il clima di paranoia produce ormai episodi assurdi, come quello di un funzionario di una fondazione di ricerca arrestato in pieno giorno a Mosca mentre stava facendo una telefonata in tedesco: i poliziotti l’hanno picchiato perché «parlava in non russo».

Il flop siriano

La Russia sta dettando le regole in Siria, ma dal punto di vista russo la guerra mediorientale non è un vero successo: invece di un blitz di tre mesi la missione russa a fianco di Bashar al-Assad dura ormai da quasi un anno, e Aleppo sta diventando una nuova Grozny. Le quotazioni di Donald Trump sembrano in declino, mentre a Washington si sta discutendo di nuove sanzioni per punire i russi per l’hackeraggio dei server del partito democratico. La situazione in Ucraina è lontana da una soluzione. E se è vero – come sostiene Kiev – che il tentativo di «infiltrazione sovversiva» di agenti ucraini in Crimea denunciato giovedì da Putin con toni da guerra imminente in realtà è solo un caso di fuoco amico tra militari russi un po’ alticci, la situazione potrebbe diventare imbarazzante. E poi c’è l’umiliazione delle Olimpiadi, con gli atleti russi sopravvissuti al filtro antidoping fischiati dal pubblico. Un affronto che per una grande potenza – e la popolarità di Putin raggiunge i massimi proprio quando rivendica questo status, come è accaduto con la guerra in Georgia e l’annessione della Crimea – è intollerabile.

Questo articolo e’ stato originariamente pubblicato da La Stampa, che ringraziamo

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