di Alessandro Sallusti
Siamo il Paese dell’eterno compromesso, del ni, dei se e dei ma anche, la chiarezza insomma non è il nostro pezzo forte. L’ultima in tal senso arriva dalla Corte di Cassazione che si è dovuta riunire a sezioni congiunte, cosa assai rara e solenne, per stabilire se è reato oppure no fare il saluto fascista. Bene, ieri la Corte ha sentenziato che non lo è ma anche sì, nel senso che non lo è se fatto per commemorare qualcuno o qualcosa (un caduto, una battaglia, forse pure un anniversario) ma lo è se fatto per inneggiare al ritorno di un partito fascista la cui ricostituzione è vietata. Che è un po’ come dire che è lecito bestemmiare contro la malasorte ma non per offendere il Signore.
Ecco, questo è il punto che rende evanescente la pilatesca sentenza, tanto è labile il confine tra la commemorazione e la celebrazione, tra la libertà di espressione (per noi sacra in ogni caso) e la volontà criminale. Finirà che il giudizio su chi si avventurerà ad alzare il braccio teso non dipenderà da fattori oggettivi, bensì dall’interpretazione soggettiva del magistrato, che mai potrà stabilire con certezza se l’imputato stava omaggiando un morto o l’ideale politico della persona deceduta con l’intento di riportarlo in auge.
In altre parole, sarà condannato chi finirà sotto il giudizio di una toga di sinistra carica di pregiudizi e assolto chi avrà la fortuna di incappare in un giudice laico e neutrale. A differenza di quanto accade in Germania, dove il saluto nazista è severamente vietato in ogni caso, in Italia questa stucchevole e a tratti ridicola diatriba è quindi destinata a continuare, per la felicità di scrittori e giornalisti di sinistra che si sono arricchiti sfornando con ritmo impressionante libri sul fascismo e sul Duce e riempito paginate di giornali sul tema pur di esistere.
Il fascismo come fenomeno politico e sociale esiste soltanto nella testa degli antifascisti militanti, che a furia di insistere oggi devono ingoiare il boomerang del «saluto al morto» come atto democratico e costituzionale. Perché per dirla con le loro parole ripetute quando fa loro comodo, le sentenze non si discutono, si rispettano.
Questo articolo è stato originariamente pubblicato da Il Giornale, che ringraziamo
belfagor
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