Italia: Pil in calo, buco da 10 miliardi

Bruxelles non chiederà una manovra correttiva ma il dimezzamento della crescita svuota le casse del Tesoro. Meloni spera in un ammorbidimento di Lagarde e accelera sulle privatizzazioni.

Non si può dire Giancarlo Giorgetti non sapesse cosa lo aspettava. Il primo allarme era suonato dopo il 7 ottobre in Medio Oriente, e se ne era avuta conferma nelle stime degli analisti indipendenti, tutte al ribasso. Non si può dire nemmeno che l’Italia sia un caso isolato, perché le previsioni della Commissione europea raccontano del rallentamento delle economie di tutto il vecchio Continente.

La cattiva notizia è che mezzo punto di crescita in meno significa un buco nei conti pubblici di dieci miliardi di euro. La buona è che molto difficilmente questo scenario si tradurrà entro l’estate in una richiesta di manovra correttiva. Pur essendo in uscita, il commissario italiano all’Economia Paolo Gentiloni – complici le lente procedure di insediamento del nuovo esecutivo europeo – resterà al suo posto per gran parte di quest’anno. Il fatto che sin d’ora getti acqua sul fuoco dell’ipotesi è significativo. La Commissione uscente non ha più la forza politica per imporre un aggiustamento dei conti in corso d’anno. E però la conferma del dimezzamento delle stime di crescita per il 2024 ora apre un problema serissimo per il governo, la sua maggioranza e la campagna elettorale.

«La situazione è sotto controllo», si limitano a spiegare dal Tesoro. Il calo delle stime di crescita avrà una prima conseguenza sul piano di privatizzazioni. Il peggioramento del deficit prodotto dal calo della crescita costringe il governo a procedere senza ripensamenti. A primavera si partirà con la cessione di una quota di Poste, poi si passerà ad Eni e realisticamente in autunno – sarà il turno di Ferrovie, l’operazione più delicata di tutte perché lo Stato è tuttora azionista al cento per cento del gruppo. Di Poste – già quotata – andrà in vendita una quota superiore al dieci per cento fin qui pronosticata: sulla carta fino al trenta per cento, ovvero l’intero pacchetto detentuto direttamente dal Tesoro.

Di Eni sarà ceduto il quattro per cento, non più di quanto necessario a mantenere il pieno controllo della più strategica delle aziende pubbliche. Per Ferrovie si ipotizza la cessione del trenta per cento di Trenitalia dopo la piena separazione dalla rete, che controlla anche le strade di Anas. La faccenda è complicata dal fatto che nel frattempo il governo deve procedere al rinnovo delle nomine nella stessa Ferrovie e a Cassa depositi e prestiti.

Non è un caso – visto il quadro – che Giorgia Meloni stia accarezzando l’ipotesi di confermare sia il numero uno di Fs (Luigi Ferraris) sia quello di Cdp (Dario Scannapieco) entrambi scelti dal governo di Mario Draghi. Né Meloni sembra lasciarsi condizionare dalle battute che nei momenti di sconforto fanno dire a Giorgetti che andrebbe volentieri a occupare un posto nella nuova Commissione di Bruxelles. La debolezza politica di Matteo Salvini e della Lega – che i sondaggi danno in calo – complica la vita di Meloni e del ministro leghista del Tesoro, i cui rapporti con il leader sono sempre alterni.

Complici i tassi alti in tutta Europa, lo spread fra Btp italiani e Bund tedeschi per ora non preoccupa il governo. Ieri ha chiuso a 149 punti, solo in lieve rialzo rispetto ai giorni precedenti. Il rendimento dei titoli resta però alto al 3,85 per cento, e tiene alto il costo degli interessi sul debito. La speranza a cui può attaccarsi il governo è quello di un taglio dei tassi da parte della Banca centrale europea – ai massimi dal 2007 – dove il dibattito attorno al quanto e il come è tuttora apertissimo. Nonostante la recessione tedesca, la Bundesbank è preoccupata dell’aumento dei salari europei, trascinati in questi mesi dall’inflazione.

In questi giorni il governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta cerca di dare una mano alle ragioni delle colombe ricordando che l’aumento degli stipendi non è un male in sé, e anzi può dare una spinta ai consumi e di riflesso alla tenuta della crescita. In più c’è da fare i conti con le conseguenze degli attacchi delle milizie Houthi ai mercantili occidentali che attraversano il Mar Rosso e che hanno fatto impennare i costi delle merci in arrivo da Oriente.

La pressione dei governi su Christine Lagarde perché Francoforte faccia un passo è sempre più forte. L’ipotesi più probabile è quello di un taglio nella riunione del 6 giugno, il primo giorno in cui i cittadini europei andranno alle urne, ma – a meno di un ulteriore aggravamento del quadro – c’è chi non esclude una decisione l’11 aprile. Nulla può essere dato per scontato: più sale la pressione della politica, maggiori sono le probabilità che i venti banchieri della zona euro rispondano sottolineando le ragioni della loro indipendenza.

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