Tra Usa e Cina lo spettro della guerra (e la questione razziale)

Per l'impero americano, fondato sulla strapotenza militare, la disputa fra il comandante in capo e le sue truppe è il peggiore degli scenari possibili. Con la faglia razziale, il Pentagono si schiera contro il presidente.

di Lucio Caracciolo

(WSC) ROMA – Stati Uniti e Cina sono su un piano inclinato che se non raddrizzato sfocerà in guerra. Gli apparati strategici dei due imperi stanno responsabilmente studiando tale eventualità e prendendo relative misure, per natura segrete.

Su questo sfondo conviene interpretare la tempesta che scuote l’America. Eccitata dall’assassinio di George Floyd, ma innescata dalla strage da coronavirus e dalla conseguente recessione, perciò destinata a spargere sale sulle ferite aperte dalla faglia razziale che da sempre divide la nazione, la crisi in pieno corso svela quanto rischiosa sarebbe per gli Usa l’avventura bellica.

La prima priorità per qualsiasi Paese debba affrontare una guerra è la coesione del fronte interno. Se poi il soggetto in questione è l’America, vale doppio. La sua più cocente sconfitta, in Vietnam, nacque dal crescente rifiuto dell’opinione pubblica, compresa parte delle sue Forze armate, di sostenere i costi non solo umani di quel conflitto. Per mandare la tua gente a morire devi sapergli spiegare perché. E convincerla.

ll secondo postulato è la chiara distribuzione del potere e della responsabilità. Negli Stati Uniti l’equilibrio dei poteri, specie fra governo centrale e Stati federati, non è deciso una volta per tutte. E’ sempre oggetto di competizione. Di frizione fra centro ed entità federate. Lo stato di guerra dovrebbe automaticamente annullarle: ci si raduna attorno alla bandiera, si obbedisce al comandante in capo. Nella disastrosa risposta all’epidemia e sull’onda del caso Floyd, che i più scalmanati vorrebbero prodromo di guerra civile, si sta però prefigurando il contrario.

Il terzo precetto è il funzionamento della catena di comando, dal presidente fino all’ultimo sergente. Non è solo questione di disciplina, ma di convinzione. Un soldato che ritiene ingiusto o folle l’ordine ricevuto, lo esegue malamente, se non lo rifiuta. Vale anche per i poliziotti. Nella reazione alle proteste, sia pacifiche che teppistiche, la catena appare inceppata. Va oliata d’urgenza.

Quando Trump, rispolverando l’Insurrection Act del 1807, ha evocato l’opzione di stroncare manu militari le proteste diffuse in oltre 140 città degli States, facendo intanto affluire a Washington 700 uomini dell’82 esima divisione aviotrasportata, si aspettava che i “suoi” (il presidente ama il possessivo) soldati si mettessero sull’attenti. E’ successo l’opposto. I massimi vertici militari hanno percepito la montante insofferenza delle truppe, non addestrate né disposte a fare i poliziotti. Il soldato americano giura sulla costituzione e deve eseguire gli ordini legali del presidente/comandante in capo. Se percepisce l’illegalità o peggio l’immoralità del comando soffre un dilemma lacerante.

Erano passate poche ore dalla minaccia di Trump e già alcuni fra i pesi massimi del Pentagono e del mondo militare si schieravano contro il presidente.

JohnAllen, ex generale dei marines oggi presidente della Brookings Institution, quasi apocalittico: «La svolta degli Stati Uniti verso l’illiberalismo potrebbe essere cominciata il 1° giugno 2020. Ricordatela data. Potrebbe ben segnare l’inizio della fine dell’esperimento americano».

Il suo pari grado Jim “Cane Matto” Mattis, già segretario alla Difesa di Trump, dipingeva The Donald «impegnato a dividere anziché unire» la nazione. Il generale dell’Esercito Mark Milley, capo degli Stati maggiori riuniti, supremo incarico militare, si schierava contro l’impiego dei suoi uomini per sedare le rivolte. Infine, lo stesso titolare del Pentagono, Mark Esper, si esprimeva seccamente contro il comandante in capo.

La legge del 1807, concepita contro i pellerossa, invocata in venti occasioni per i casi più diversi, tra cui la protezione degli afroamericani minacciati dal Ku Klux Klan (Ulysses Grant, 1871), consente al presidente di scavalcare gli Stati in caso di insurrezione, inviando l’esercito a spegnerla. Si tratta di un atto politico. Come tale Trump l’ha concepito, offrendosi campione di “legge e ordine” al suo elettorato per rimontare i sondaggi che oggi lo vorrebbero perdente nel voto presidenziale di novembre.

Non è escluso che ce la faccia, stante anche la modestia del suo avversario, “Sleepy Joe” Biden. Ma Trump non si aspettava la reazione dei militari. Le Forze armate sono di gran lunga l’istituzione più amata della nazione: 73% contro 38% dei consensi per la presidenza; il Congresso, buon ultimo, sprofonda all’11%.

Guerra o meno, per l’impero americano, fondato sulla strapotenza militare, la disputa fra il comandante in capo e le sue truppe è il peggiore degli scenari possibili. E forse proprio per sanare questa frattura una guerra, magari non contro il rivale più impegnativo, potrebbe tentarne i leader. Contando sul soprassalto del patriottismo americano.

Questo articolo è stato originariamente pubblicato da La Stampa, che ringraziamo

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