La grande crisi finanziaria, 10 anni dopo. Per non fare il bis

Non è cambiato nulla. La diseguaglianza è un problema quando l'economia si regge su consumi di massa, con salari e lavoro in calo.

A dieci anni di distanza sappiamo che dietro la crisi finanziaria globale ci sono stati una causa latente e un fattore scatenante. E che la sua cura è stata rapida ed efficace negli Stati Uniti d’America, più lenta e meno risolutiva nell’Unione Europea. La causa latente è la crescita della diseguaglianza che, proprio prima della crisi, aveva raggiunto negli Usa lo stesso picco dell’altra grande crisi del 1929, con la quota di reddito del “top 1%” di percettori di guadagni che in quel Paese aveva superato la soglia critica del 23% (quasi un quarto del totale). La diseguaglianza diventa un problema quando un sistema economico si regge sui consumi di massa rendendo assai difficile rispondere all’imperativo di consumare di più quando i redditi si riducono o non crescono.

La soluzione degli Usa prima della crisi del 2007 fu quella di sviluppare il mercato del debito privato (in particolare per l’acquisto delle case) e di creare un sistema complesso di cartolarizzazioni dei derivati del credito che consentiva alle banche di erogare grandi volumi di mutui liberandosi poi del loro peso nei bilanci attraverso la cessione a chi costruiva i derivati. I quali erano a loro volta strutture complesse legate alle dinamiche dei prezzi delle abitazioni. La combinazione di fattori necessaria per scatenare la tempesta perfetta era pronta, e la tempesta perfetta arrivò quando i prezzi degli immobili crollarono a seguito dello scoppio della “bolla” nel settore.

La risposta degli Usa fu in tre parti, immediata e piuttosto efficace. Con fondi pubblico-privati vennero acquistati a prezzi di mercato stracciati i titoli tossici che sarebbero stati poi rivenduti a crisi superata, consentendo di realizzare guadagni. Il deficit di bilancio pubblico fu temporaneamente aumentato per colmare il vuoto di domanda causato dalla crisi. La politica monetaria fu subito espansiva col ricorso al quantitative easing – l’acquisto di titoli del debito da parte della Banca centrale – e la moneta così creata rimpiazzò la moneta distrutta nelle crisi bancarie e nei prestiti non restituibili.

La risposta europea fu molto più incerta e lenta. Il quantitative easing è arrivato solo 7 anni dopo, sulla spinta di pressioni dell’opinione pubblica nei diversi Paesi (tra cui il manifesto degli oltre 350 economisti pubblicato da “Avvenire”), la politica di bilancio è rimasta restrittiva, producendo una risposta in ordine sparso che ha messo in crisi soprattutto i Paesi del sud dell’Eurozona. E questo ha trasformato la crisi finanziaria globale nella crisi dell’euro, con la febbre dello spread che ha indicato in anni per noi difficili un insostenibile divario tra il costo del debito pubblico e del credito bancario tra Stati del Sud e del Nord dell’Eurozona.

In Italia, continuiamo lentamente a far rimarginare le ferite di quel terribile periodo, con il terzo anno di debole ripresa dopo sette anni di vacche magre. Mentre alcune delle conseguenze di quei momenti terribili sono ancora tra di noi, come il conto aperto sui derivati di “assicurazione” del debito pubblico che ogni tanto ci porta a pagare qualche miliardo a chi la crisi finanziaria globale l’ha fatta scoppiare.

Ma è possibile evitare che un evento del genere accada di nuovo e quali sono le crisi che ci minacciano nel futuro?
La stessa tempesta perfetta non può tornare due volte, tuttavia la causa latente che l’ha scatenata, non ancora risolta, può produrre nuove crisi in futuro se le diseguaglianze estreme perdureranno. E i fattori di fondo che generano le diseguaglianze sono ancora presenti, perché la fase attuale della globalizzazione e la rivoluzione tecnologica delle macchine e dei robot continueranno ad assottigliare la classe media. Per questo, per vincere la sfida, l’Unione Europea deve agire in modo molto più coeso e coraggioso, aumentando gli strumenti cooperativi di cui dispone nelle politiche di bilancio e di gestione del debito pubblico, varando una rivoluzione fiscale che sia in grado di favorire una creazione di valore economico diffusa ed ambientalmente sostenibile.

E redistribuire la ricchezza creata dai grandi gruppi che si avvantaggiano della fase attuale dello sviluppo tecnologico. Inoltre, oggi sappiamo che il barometro da consultare per prevedere le tempeste del futuro è molto più complesso e include diseguaglianze, disoccupazione e temperatura del pianeta. E bene ha fatto il Governo italiano, all’avanguardia in questo a livello mondiale, a misurare da quest’anno gli effetti della manovra economica su diseguaglianze, disoccupazione ed emissioni di CO2 selezionando alcuni degli indicatori del Bes (l’indice complesso del benessere equo e sostenibile). È infatti degli allarmi che ci inviano questi indicatori, e delle possibili nuove crisi globali che ne scaturirebbero, che oggi dobbiamo occuparci per evitare le ‘tempeste perfette’ del futuro.

Ed è ancora dalla dinamica di questi indicatori che possiamo capire che già oggi la combinazione terribile di diseguaglianze e riscaldamento globale sta producendo flussi migratori sempre più imponenti, aumentando i divari attesi tra benessere nei Paesi di origine e di destinazione dei migranti a livelli superiori ai terribili costi di ‘transazione’ delle migrazioni, le cui tristi cronache – dai lager libici e dal Sahel – cominciano ad affiorare finalmente sulle pagine di altri giornali oltre a questo. La stessa crisi non può, dunque, tornare due volte, ma abbiamo fondati sospetti su quali saranno le più probabili ‘tempeste perfette’ del futuro. E non possiamo essere accusati per la seconda volta di non aver lanciato l’allarme per tempo.

di Lorenzo Becchetti

Fonte: Avvenire

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