Guerra commerciale Usa-Cina: vince Trump o Xi Jinping?

di Marco Marazzi - È venuto il momento di valutare gli effetti della dura lotta sul commercio avviata dall'amministrazione americana circa un anno e mezzo fa.

Attenzione all’illusione che a rallentare o ostacolare di fatto una porzione del commercio globale così rilevante come quella tra USA e Cina non abbia effetti anche al di là dei due giganti.

di Marco Marazzi

avvocato, partner di Baker McKenzie

È venuto il momento di valutare gli effetti della guerra commerciale avviata dall’amministrazione Trump circa un anno e mezzo fa, soprattutto (anche se non solo) nei confronti della Cina.  Chi è stato poco attento infatti ha vissuto fino a poco tempo fa un’illusione: che cioè rallentare o ostacolare di fatto una porzione del commercio globale così rilevante come quella tra USA e Cina non abbia effetti anche al di là dei due giganti.

Ma andiamo per ordine e vediamo anzitutto che effetti ha avuto in America rispetto alle promesse di Trump.

Gli effetti negli Stati Uniti

C’è stato “reshoring“? Cioè “i posti di lavoro rubati agli americani” sono tornati dalla Cina a casa come aveva promesso il nuovo presidente? Non proprio: secondo studi recenti gran parte dei posti di lavoro sono andati in Messico, non proprio quello che Trump si aspettava viste le frizioni anche con questo paese parte del NAFTA. In realtà un processo di reshoring dalla Cina stava già avvenendo più o meno dal 2013, in piena “distensione” commerciale, a seguito di vari fenomeni: l’aumento del costo del lavoro cinese e la necessità per alcuni prodotti di essere più vicini ai consumatori americani abituati a consegne sempre più rapide grazie all’e-commerce e a prodotti customizzati.

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Per lo stesso motivo però, le aziende americane che producono per il mercato cinese restano in Cina, o ci vanno se ancora non ci sono. Lo stesso vale per altri paesi: la Cina infatti continua a vedere un aumento degli investimenti dall’estero anche nel 2019 (+7.3% nei primi sette mesi rispetto a stesso periodo 2018). Che dipende è vero anche dalla liberalizzazione di alcuni settori, ma soprattutto dalle dimensioni del mercato composto di consumatori sempre più esigenti ed abituati come quelli americani al “just in time”.   

Forte aumento degli investimenti in Vietnam

Contemporaneamente il Vietnam, paese vicino alla Cina, più piccolo ma molto simile ad essa dal punto di vista politico, ha visto aumenti vertiginosi di investimenti non solo da parte di aziende cinesi (circa il 30% del totale) ma anche americane ed europee: 22 miliardi solo nei primi 7 mesi di quest’anno. Quindi, il reshoring ha provocato meno occupazione in Cina (vedremo poi se sarà controbilanciata dai nuovi investimenti esteri, anche perchè sono settori diversi), più occupazione in Vietnam e Messico e altri paesi dove si sono spostate le fabbriche che producevano per il mercato americano, come Indonesia e Malesia.

Ma non sembra che abbia riportato al lavoro tutti quegli “American workers” che l’avevano perso. Chissà: forse perchè fare alcuni prodotti in America non è più conveniente dal punto di vista economico, non solo per i maggiori costi che non si possono riversare su consumatori abituati a pagare poco, ma anche perchè magari non esiste più l’indotto necessario a supportarne la produzione.

Pechino ha abbassato i dazi

La Cina ha fatto concessioni su altre materie? Ha abbassato i dazi su una lunga serie di merci prima nel 2017 poi nel 2018, ma ne ha messi altrettanti su molti prodotti americani come reazione a quelli USA.  Sembra quindi che alla fine di queste ulteriori aperture abbiano beneficiato soprattutto altri paesi, anche noi europei. Insomma, più Airbus meno Boeing, più vino italiano o francese meno californiano, ma anche meno soia americana più soia brasiliana (con le conseguenze sull’Amazzonia… ma guarda un pò dove si va a finire quando si tocca un tasto). Infine, la svaluazione del RMB ha consentito un parziale recupero di competitività, anche se non significativo.

Impedire l’acquisizione di alcune aziende americane

La Cina ha, è vero, aperto alcuni settori all’investimento estero. Ma anche questo era un processo già in atto a seguito di forti pressioni da parte della UE e del Giappone non solo USA.  Nel settore finanziario poi, le restrizioni precedenti erano ormai anacronistiche rispetto al ruolo internazionale che il paese vuole assumere. Contemporaneamente, gli USA hanno di fatto creato una barriera agli investimenti cinesi in settori che non immediatamente possono sembrare strategici, portando quindi ad un crollo degli stessi. Se questo era uno degli obiettivi dell’amministrazione Trump, cioè impedire l’acquisizione di alcune aziende americane da parte di aziende cinesi, di fatto è stato raggiunto. Ma i dazi non servivano: bastava dare più armi al CFIUS, come è stato fatto.    

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