Chang, Trump e il “New Normal”… Ma l’€uropa? Kaputt

Due accademici anglosassoni, che sono certamente non ascrivibili all’area marxista o “antagonista”, parlano correntemente di “fazioni dominanti del capitale” e di “Stato capitalista“: una cosa impensabile in Italia, …

Due accademici anglosassoni, che sono certamente non ascrivibili all’area marxista o “antagonista”, parlano correntemente di “fazioni dominanti del capitale” e di “Stato capitalista“: una cosa impensabile in Italia, e in generale in €uropa, a livello di dibattito mediatico e dei suoi corredati espertologi. 
A. Vi riporto un’interessante (e recente) intervista di Ha Joon Chang. Ne traduco i passi salienti, tralasciando alcune frasi di raccordo, specialmente nelle domande poste dall’intervistatore, nella lingua originaria. L’esercizio dovrebbe essere utile anche per coloro che sono meno familiari con l’inglese, stimolandone le capacità logico-deduttive insieme con una maggior concentrazione sul senso dei concetti 🙂
Si può notare che due accademici anglosassoni, che sono certamente non ascrivibili all’area marxista o “antagonista”, parlano correntemente di “fazioni dominanti del capitale” e di “Stato capitalista“: una cosa impensabile in Italia, e in generale in €uropa, a livello di dibattito mediatico e dei suoi corredati espertologi.
Per quanto concerne Chang, non c’è, certamente, neppure la ragion di parte (tipica dell’attuale Krugman, ad es.) della recente elezione di Trump, che, per molti versi, ha risvegliato, nel mondo progressista (liberal) anglosassone, atteggiamenti critici sul piano dell’equità e della giustizia del paradigma economico imperante.
Chang, per chi ne conosce il lavoro, ha sempre offerto una stringente critica su questo versante, risultando uno dei più attenti e preparati conoscitori, probabilmente il più esplicitamente critico e “letto” in tutto il mondo, di dati e tendenze effettive dell’economia mondiale.
Come vedrete, pur partendo dagli Stati Uniti e da Trump, finisce (inevitabilmente) per parlare molto dell’€uropa.
L’intervista delinea molto bene quali sono i protagonisti esatti del conflitto sociale attuale, chi l’ha scatenato, chi lo sta perdendo e quali sono i colpevoli della situazione attuale, il loro incredibile grado di colpa, così come la loro sostanziale impunità: un combinato di elementi clamorosi che è ormai assurto a indirizzo politico incontestato degli Stati capitalisti occidentali, disegnando una “costituzione materiale”, tanto più illegittima quanto più la sua iniquità è affermata come riflesso razionale, e dotato di legittimità de facto, del senso di colpa incredibilmente indotto, dal sistema mediatico, in coloro che la subiscono.
Sono certo che per gli attenti lettori del blog, (per gli altri non saprei), non sfuggiranno le immediate implicazioni adattive di quanto spiegato da Chang, in termini di accadimenti e policies €uropee.
Nelle sue parole, si può agevolmente scorgere (in controluce e rebus sic stantibus),  persino chi siano gli stakeholders del business dell’immigrazione: questa, a ben leggere, è compatibile solo con politiche fiscali espansive e un recupero della tutela del lavoro e del welfare, almeno a ben leggere le risposte di Chang, tendenze che appaiono ben lontane all’orizzonte.
Egli, a oner del vero, non affronta in alcun modo il problema della moneta unica quale prospettato da Draghi (p.1) e ora De Grauwe: e questo è un limite della sua analisi.
La contraddizione che egli addita, correttamente, e i rimedi suggeriti, risulterebbero molto più utili, e proprio in proiezione sull’intera economia mondiale, se egli affrontasse specificamente il contesto istituzionale dell’eurozona: un problema che passa, più che mai, per la forza di un vincolo giuridico, che vieta normativamente qualsiasi mutamento delle attuali politiche neo-liberiste (più che risultare semplicemente inviso alle forze capitaliste che, egli stesso, indica come controllori degli Stati).
Attendiamo che, prima o poi, Chang prenda posizione su questo specifico problema che “piomba” l’intero sviluppo dell’economia mondiale. A ben vedere: e a Chang non dovrebbe sfuggire…
Proprio la ben calibrata descrizione della inconsistenza delle politiche (contraddittoriamente) perseguite da Trump nel medio periodo, poi, ci dà la misura di quanto conti l’aspetto istituzionale: ciò rende vieppiù importante affrontare tale aspetto, da parte degli Stati Uniti, rispetto all’Unione europea, in quanto conglomera (che piaccia o no, in termini di proiezione geo-politica) un PIL attualmente ben superiore a quello degli stessi USA e una quota del commercio mondiale di gran lunga al primo posto.
Si noti pure che tutto il “ricettario” indicato da Chang sul rilancio dell’economia USA – (che coincide ampiamente con quanto sostiene Cesare Pozzi, riguardo al rilancio della nostra economia, mutatis mutandis in funzione di una diversa specializzazione territoriale),- trova, in quel contesto, delle inevitabili (e, almeno da parte di Trump, allo stato insuperabili) resistenze politiche, segnatamente nell’assetto finanziarizzato dominante: ma sono pur sempre astrattamente praticabili nel contesto istituzionale USA.
In €uropa invece, – e non lo si può mai ripetere abbastanza- quell’insieme di misure (che porterebbero ad un’espansione europea di cui fruirebbe con immediatezza l’economia USA, aiutando sostanzialmente un percorso di ripresa nel loro stesso interesse), sono giuridicamente vietate dai trattati UE.
Certo, affrontare un problema del genere, sebbene risulti di massima importanza per il benessere e la sostenibilità dell’economia USA, implica delle “risorse culturali”, cioè degli strumenti di analisi economica e sociale, proiettabili nel tempo, cui l’Amministrazione USA pare aver in partenza rinunciato.
Salvo ripensamenti dovuti allo scoppio di qualche imminente bolla finanziaria: in fondo, né Trump, né giocoforza le due Amministrazioni Obama che l’hanno preceduto, risultano aver intrapreso delle misure idonee a prevenire il loro ripetersi. E questa omissione può rivelarsi ad esito disastroso se nuovamente affrontata con gli strumenti del pensiero economico dominante.
B. C. J. Polychroniou (intervistatore la cui figura marita un approfondimento) interviews world-renowned Cambridge University Professor of Economics Ha-Joon Chang.
All’incirca per tutti gli scorsi 40 anni, il neoliberalismo ha regnato incontratato sulla maggior parte del mondo capitalistico occidentale, producendo livelli di accumulo di ricchezza senza precedenti per una manciata di individui e le global corporations, mentre al resto della società è stato richierso di ingoiare l’austerità fiscale redditi stagnanti, e la riduzione del welfare state.
Ma proprio quando tutti abbiamo pensato che le contraddizioni del capitalismo neoliberale avessero raggiunto il penultimo stadio, culminante nello scontento di massa e in opposizione al neoliberismo globale, il risultato delle elezioni presidenziali USA del 2016, hanno portato al potere un individuo megalomane che si rifa all’economia capitalista mentre si oppone alla gran parte della sua dimensione globale.[Ndr: E, oggi, in €uropa, all’elezione di Macron che si rivelerà, purtroppo, nel medio periodo, ancora più disastrosa…]
Cos’è esattamente il neoliberalism? Cosa rappresenta? E cosa dovremo attenderci dalle posizioni economiche assunte da Trump?  In questa intervista, world-renowned Cambridge University Professor of Economics Ha-Joon Chang, risponde a queste urgenti domande, sottolineando che nonostante la pretesa di Donald Trump di effettuare “spesa in infrastrutture” e la sua opposizione agli accordi “free trade”, dovremmo essere preoccupati delle suo politiche economiche, dell suo abbracciare il neoliberalism e della sua convinta lealtà al ricco.
C. J. Polychroniou: For the past 40 or so years, the ideology and policies of “free-market” capitalism have reigned supreme in much of the advanced industrialized world. Tuttavia, molto di ciò che passa per capitalismo del “libero mercato”, consiste in misure disegnate e promose dallo Stato capitalista per conto delle fazioni dominanti del capitale. Quali altri miti e bugie sul “capitalismo attualmente esistente”, vale la pena di additare?
Ha-Joon Chang: Gore Vidal, lo scrittore americano, disse una frase rimasta famosa, cioè che l’economia americana è “libera intrapresa per il povero e socialismo per il ricco”.  Credo che questa affermazione riassuma molto bene ciò che viene fatto passare per  ‘free-market capitalism’  negli ultimi decenni, specialmente ma non soltanto per gli Stati Uniti. Durante questi ultimi decenni, il ricco è stato sempre più protetto dalle forze del mercato, mentre il povero è stato via via sempre più esposto ad esse.
Per il ricco, gli ultimi decenni sono stati “testa vinco io, croce perdi tu”.
I top managers, specialmente negli USA, concordano la retribuzione sulla base di pacchetti che gli attribuiscono centinaia di milioni per fallire – e molto di più per svolgere un lavoro appena decente.
Le Corporations sono sussidiate in grande scala con poche condizioni – talora in modo diretto, ma spesso indirettamente attraverso gli appalti pubblici (specialmente nella difesa) con prezzi inflazionati posti a base degli affidamenti, e tecnologie gratis prodotte dai programmi pubblici finanziati dai governi.
Dopo ogni crisi finanziaria, a partire dalla crisi bancaria cilena del 1982,  passando per la crisi asiatica del 1997, fino alla crisi finanziaria globale del 2008, le banche sono state salvate dal denaro pubblico con migliaia di miliardi di dollari dei contribuenti e pochi  top bankers sono andati in prigione. Nell’ultimo decennio, le classi proprietarie abbienti dei paesi ricchi sono state anche tenute a galla da “storici” tassi di interesse ridotti.
All’opposto, la gente povera, è stata soggetta in modo crescente alle forze del mercato.
In nome della crescente  “labor market flexibility,” il povero è stato sempre più privato dei suoi diritti di lavoratore.
Questa tendenza ha raggiunto un nuovo livello con l’emergere della c.d.”gig economy,” nella quale i lavoratori sono fintamente assunti come  “self-employed” (autonomi) (senza quel controllo sul proprio lavoro che caratterizza il vero lavoratore autonomo) e privati dei più elementari diritti (es., retribuzione dell’assenza per malattia, ferie retribuite).
Indeboliti i loro diritti, i lavoratori devono impegnarsi in una corsa verso il fondo, nella quale competono nell’accettare retribuzioni sempre più basse e condizioni di lavoro di crescente privazione.
Nell’era dei consumi, la progressiva privatizzazione e deregolazione delle industrie fornitrici dei servizi pubblici essenziali, quelli su cui i poveri fanno maggior affidamento, – come l’acqua, i pubblici trasporti, i servizi postali, l’assistenza sanitaria e la pubblica istruzione- ha significato che il povero ha visto una sproporzionata esposizione dei propri consumi alla logica del mercato.
Negli ultimi anni seguenti alla crisi del 2008, la legittimazione alle prestazioni del welfare è stata ridotta in molti paesi e i requisiti per accedervi  (es;., crescenti ed inclementi test di idoneità al lavoro per i disabili, la formazione obbligatoria per creare curriculum per coloro che dovrebbero ricevere i sussidi di disoccupazione) sono divenuti sempre più restrittivi, portando sempre più povera gente a competere senza alcuna rete su un mercato del lavoro per cui non sono ritenuti “fit”.
Tra tutti i vari altri miti e bugie sul capitalismo, nella mia visione il più importante è quello che ci debba essere un dominio oggettivo dell’economia in cui la logica politica non deve intromettersi (ndr; non sfuggirà che questa è la logica della “Legge” naturale e pre-istituzionale di Hayek, il cui riflesso più “pop” è quello, così spesso ripetuto in TV dai politici di governo, per cui “non si possono creare posti di lavoro per decreto“).
Una volta accettata l’esistenza di questo dominio esclusivo dell’economia, come è ormai di comune dominio, si arriva ad accettare l’autorità degli esperti economici, come interlocutori che esprimano una qualche verità scientifica sull’economia, i quali, appunto, sulla base di tale “consenso” detteranno il modo in cui va gestita l’economia (ndr; come non rammentare l’ultimo, e ancora “caldo”, intervento di De Grauwe oppure la “fantasmagorica” conversazione tra espertoni del FMI sulla Grecia?).
Comunque, non c’è un modo oggettivo per determinare i confini dell’economia, perché il mercato stesso è una costruzione politica, come dimostra il fatto che oggi sia illegale, nei paesi ricchi, il commercio di beni che un tempo erano liberamente comprati e venduti- come il lavoro degli schiavi e dei bambini.
A sua volta, non c’è neppure un modo oggettivo di costruire dei confini intorno all’economia, laddove quando gli esponenti del pensiero dominante criticano l’intrusione della logica politica (ndr; ricordate Einaudi e Hayek, che parlano di “corruzione legalizzata”, qui cfr; p.8, e i dettami del gold standard nel I° dopoguerra, come “sana gestione” della res publica, qui, pp.7-8, ripresi alla lettera dalle istituzioni UE, cfr, p.5-6?), stanno solo sostenendo che la lor (di ESSI) visione politica di ciò che spetta al mercato sia l’unica corretta.
Risulta molto importante rigettare il mito di un confine naturale inviolabile dell’economia, perché è questo il punto di partenza nello sfidare lo status quo.
Se si accetta che il welfare state debba essere ridotto, i diritti del lavoro illimitatamente indeboliti, si accetta la chiusura degli stabilimenti, e così via, a causa di una qualche logica economica oggettiva, (ovvero delle  “market forces,” come sono spesso designate), la modifica dello status quo è virtualmente irrealizzabile.
D: L’austerità è diventata il dogma prevalente in tutta €uropa, ed è pure una priorità dell’agenda repubblicana. Se anche l’austerità è fondata su bugie, qual è il suo effetivo scopo?
R. Molti economisti — Joseph Stiglitz, Paul Krugman, Mark Blyth and Yanis Varoufakis, per menzionare i più noti– hanno scritto che l’austerità non funziona, specialmente in un ciclo economico negativo (come invece predicato per molti paesi in via di sviluppo in base al  World Bank-IMF Structural Adjustment Programs negli anni ’80 e ’90, e più di recente in Grecia, Spagna e gli altri paesi dell’eurozona).
Molti di quelli che spingono per l’austerità lo fanno perchè genuinamente credono che funzioni (sebbene sbagliando), ma, per lo più, coloro che sono abbastanza brillanti per sapere che non funziona, la utilizzano perché è un modo ottimale per restringere lo Stato (e dare così sempre più potere al settore corporate, incluso quello straniero) in modo da mutare la natura delle funzioni statali in direzione pro-corporate  (es., è quasi sempre il  welfare spending, pensioni e sanità pubbliche, il primo obiettivo).
In altrea parole, l’austerity è il modo privilegiato di spingere per una  political agenda regressiva senza aver l’aria di farlo.
Si può affermare che intraprendi i tagli di spesa perché devi pareggiare i bilanci e mettere ordine in casa, mentre in realtà stai lanciando un attacco alla classe lavoratrice e ai poveri…
D: Che ne pensi di tutti i discorsi sui pericoli del debito pubblico? Quand’è che il debito pubblico è troppo?
R. Se il debito pubblico sia buono o cattivo dipende da quando il denaro sia presto a prestito (meglio se fatto durante un ciclo economico negativo), come sia stato usato il denaro (meglio se in investimenti in infrastrutture, ricerca, istruzione, o sanità, piuttosto che la spesa militare o l’edificazione di inutili monumenti), e soprattutto da chi detiene i relativi titoli (meglio se lo detengano i tuoi connazionali, poiché riduce i pericoli di una “fuga” dal tuo paese – per esempio, una ragione per cui il Giappone può sostenere altissimi livelli di debito pubblico è che la maggior parte di esso è detenuto da giapponesi).
Certo, un debito pubblico eccessivo può costituire un problema, ma cosa sia “eccessivo” dipende dal paese e dalle circostanze.
Per esempio, stando ai dati del FMI, al 2015, il Giappone ha un debito pubblico al 248% del PIL ma nessuno parla di pericolo.
Si potrebbe sostenere che il Giappone sia speciale ma anche notare che nello stesso anno il debito USA sta al 105% del PIL,  che è molto più alto di quello della Corea del Sud (38%), della Svezia (43 percent), o persino della Germania (71 percent): ma potrebbe sorprendere che Singapore registri un debito al 105 percent del PIL, sebbene noi raramente abbiamo udito di preoccupazioni sul debito pubblico di tale paese.
D: Numerosi economisti rispettabili sostengono che l’era della crescita economica sia terminata. Concordi con questa idea?
R. In molti parlano di  “new normal” e di una “secular stagnation“in cui un’alta diseguaglianza, l’invecchiamento della popolazione, e il deleveraging (cioè la riduzione del debito) da parte del settore finanziario privato, conducono ad una cronica bassa crescita economica, che può essere solo temporaneamente sospinta da bolle finanziarie che si rivelano insostenibili nel lungo periodo.
Ma poiché queste cause sono contrastabili da misure politiche, che però sono in partenza escluse dal pensiero economico dominante, la stagnazione secolare non è ineluttabile
L’invecchiamento e la detanalità possono essere contrastate da politiche diverse che rendano il lavoro e il crescere i bambini più compatibili fra loro (es, asili nido più economici e meglio organizzati,  orari di lavoro flessibili, compensazioni di carriera per la cura della prole) e con una maggior immigrazione. L’ineguaglianza può essere contrastata da politiche tributarie più redistributive, e da una maggior protezione dei più deboli (es., una pianificazione urbana che protegga i piccoli commercianti, e sostegni alla piccola impresa).
La riduzione del debito del settore privato può essere contrastata da una maggior spesa pubblica, come mostra l’esperienza giapponese dell’ultimo quarto di secolo.
Ma dire che la stagnazione secolare può essere contrastata è diverso dall’affermare che ciò sarà fatto.
Per esempio, la più rapida misura che può ovviare all’invecchiamento – cioè l’immigrazione- è politicamente impopolare.
In molti paesi “ricchi”, l’allineamento delle forze politiche e di quelle politiche è tale che sarà difficile ridurre le ineguaglianze nel breve-medio periodo.
E ciò perché il dogma fiscale corrente è tale che l’espansione fiscale risulta del tutto improbabile, nel prossimo futuro, nella maggior parte dei paesi occidentali.
E così, nel breve-medio periodo la bassa crescita è lo scenario più probabile.
Comunque, ciò non significa che questa durerà per sempre.
In proiezione del lungo periodo, il cambiamento politico e perciò di politiche economiche, possono cambiare in modo che le cause della stagnazione secolare siano rimosse in misura significativa.
E ciò pone in luce quanto sia importante la lotta politica per un cambiamento delle politiche economiche.
D: Che opinione hai delle porposte economiche di Trump che chiaramente abbracciano il neoliberismo..ma si oppongono ai “free-trade” agreements, e cosa ti aspetti che accada quando ciò entrerà in collisione con la austerity budget propugnata da Ryan?
Il piano di Trump per l’economia americana è ancora vago, ma finora, si può dire, ha due principali assi di sviluppo – far creare alle industrie USA più posti di lavoro e aumentare gli investimenti in infrastrutture.
Il primo “asse”, appare piuttosto fantasioso. Sostiene che lo farà aumentando il protezionismo, ma non funzionerà per due ragioni.
Anzitutto, è già vincolato da accordi internazionali di commercio – il WTO, il NAFTA, e vari trattati bilaterali  (con Korea, Australia, Singapore, etc.). Sebbene si possa tentare di spingere le cose in senso protezionista, nei margini di questo scenario, sarà arduo per gli USA imporre tariffe extra che siano abbastanza grandi da riportare lavoro in America, permanendo le regole di questi accordi.
Trump ha un team che sostiene che rinegozierà questi accordi, ma ci vorranno anni, non mesi, e ciò non produrrà alcun risultato tangibile durante il suo primo mandato.
Secondo, quand’anche sia possibile imporre delle extra tariffe contro le previsioni di questi trattati, la struttura attuale dell’economia USA è tale che sorgeranno enormi resistenze interne a misure protezioniste.
Molti dei beni importati dalla Cina o dal Messico, son prodotti, quantomeno, “per” società americane. Quando il prezzo degli iPhone o delle scarpe Nike fatte in Cina, o delle auto GM made in Mexico, crescesse del 20 o 35%, non solo i consumatori americani ma anche società come Apple, Nike e GM saranno intensamente scontenti.
Ma questo forse indurrà la Apple o la GM a riportare la produzione negli USA?
No, si sposteranno probabilmente in Vietnam o in Thailandia, che non saranno soggette a queste tariffe.
Il punto è che lo svuotamento del manifatturiero americano è progredito nel contesto della globalizzazione (US-led) della produzione e della ristrutturazione del sistema di commercio internazionale, e non può essere invertito con semplici misure protezionistiche.
Richiederà una totale riscrittura delle regole del commercio globale, e la ristrutturazione della c.d. catena di creazione del valore.
Persino a livello “domestico”, l’economia americana esigerà delle misure molto più radicali di quelle contemplate dall’amministrazione Trump.
Richiederà una politica industriale sistematica che ricostruisca le capacità produttive svuotate, a partire dalle capacità (skills) della manodopera, dalle competenze manageriali, dalla ricerca industriale di base e dalle infrastrutture modernizzate.
Per avere successo, una tale politica industriale dovrà essere sostenuta da un radicale cambiamento del sistema finanziario, in modo che un capitale più “paziente” sia reso disponibile per investimenti orientati al lungo termine e più gente di talento affluisca nel settore industriale, piuttosto che indirizzare gli investimenti nel settore bancario o nello scambio commerciale con l’estero.
Il secondo asse della strategia di Trump è l’investimento in infrastrutture.
Ciò, come detto, è un ingrediente efficace in una strategia di rilancio dell’economia americana.
Ma ciò incontrerà resistenza nelle file fiscalmente conservatrici del Congresso dominato dai repubblicani.
Sarà interessante vedere dove tutto questo andrà a parare, ma la mia maggiore preoccupazione è che Trump sia indotto a incoraggiare delle tipologie sbagliate di investimenti infrastrutturali: cioè, quelli legati al settore immobiliare (suo territorio naturale) piuttosto che allo sviluppo industriale.
E ciò non soltanto non contribuirà al rilancio dell’economia USA, ma può contribuire a creare delle bolle immobiliari, che sono state un’importante causa della crisi globale del 2008.
Questa intervista e’ stata originariamente pubblicata da http://orizzonte48.blogspot.it/   che ringraziamo
segnalato da Elmoamf, grazie
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