Intervista al prossimo presidente della Bce Weidmann (Bundesbank): «Più sovranità alla Ue o si accettino procedure di default»

Federico Fubini, uno dei piu’ preparati e piu’ indipendenti giornalisti economici d’Europa, e’ tra i pochi ad avere accesso al mondo chiusissimo ed elitario delle Banche centrali. In …

Federico Fubini, uno dei piu’ preparati e piu’ indipendenti giornalisti economici d’Europa, e’ tra i pochi ad avere accesso al mondo chiusissimo ed elitario delle Banche centrali. In qualita’ di vice-direttore del “Corriere della Sera” (il quotidiano da ieri passato sotto il controllo di Urbano Cairo, l’editore de La7) Fubini ha intervistato il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, n. 2 della Bce e successore in pectore di Mario Draghi quando il banchiere italiano lascera’ nel 2018 a scadenza mandato l’Eurotower di Francoforte. Nell’intervista che segue Weidmann lancia una serie di messaggi all’Italia e al governo Renzi, il cui significato e’ riassumibile in poche frasi: «L’Unione monetaria è a un bivio. «L’Italia ha realizzato importanti riforme. La flessibilità? Le regole non si possono cambiare in base alle esigenze politiche». Ecco l’intervista.

____

Non importa che sia il presidente. All’ora di pranzo Jens Weidmann scende come tutti alla mensa della Bundesbank, mangia ai tavoli fra centinaia di dipendenti e poi separa da sé i rifiuti nel vassoio: carta di qua, organici di là. Quindi sale al tredicesimo piano, apre una porta e mostra con emozione una grande sala la cui parete di vetro dà sulla campagna di Francoforte. Qui si riuniva il consiglio della banca centrale tedesca, un tempo; qui sono state decise alcune delle strette monetarie che misero brutalmente a nudo la fragilità dell’Italia indebitata e fiaccata dal malaffare del 1992, innescando l’ultimo grande crollo della lira. Oggi quella sala è vuota: con l’avvento dell’euro, il gruppo dirigente della Bundesbank si è ristretto ed entra tutto in una stanza più piccola. Ormai la banca centrale tedesca esercita la sua influenza in Europa in modo diverso, anche attraverso l’uso della parola come in questa intervista a Die Zeit e al Corriere.

Il presidente della Bundesbank, la banca centrale tedesca, Jens Weidmann

Le banche in Europa sono in difficoltà. I contribuenti ancora una volta dovranno salvarle?

«Non è la mia lettura degli stress test pubblicati venerdì. Hanno mostrato che negli anni scorsi le banche europee si sono rafforzate, nel complesso, anche se è chiaro che alcune devono compiere altri sforzi per migliorare la propria redditività. Questo vale non da ultimo per alcuni istituti tedeschi. Peraltro, una banca italiana ha subito fatto sapere come intende rafforzare il capitale e superare la propria crisi».

A suo avviso il piano per Monte dei Paschi, tutto basato sul mercato, è sostenibile?

«È sempre da accogliere con favore il fatto che si prenda una strada per cui si punta a raccogliere nuove risorse dal settore privato, non dallo Stato. E la qualità del bilancio dovrebbe migliorare anche deconsolidando i crediti problematici. Infatti i mercati inizialmente hanno risposto in modo molto positivo alla notizia».

Ma se il piano non andasse in porto, che penserebbe di un intervento pubblico?

«In Europa ci siamo dati nuove regole per le crisi bancarie. In linea di principio gli azionisti e i creditori devono sopportare le perdite, quando una banca va risanata. E ha anche senso: gli investitori hanno ottenuto dei profitti e per farlo hanno accettato dei rischi. Tenerli al riparo dal risanamento di una banca significa privatizzare i profitti e socializzare le perdite».

È quanto ha fatto il governo tedesco durante la crisi: ha salvato le banche senza colpire i creditori. Lei lavorava nell’ufficio della cancelliera Angela Merkel.

«Allora eravamo in una crisi finanziaria globale e non c’erano ancora le attuali regole europee. Queste norme sono una delle lezioni centrali tratte dalla crisi: dovrebbero contribuire a far sì che gli investitori e le banche valutino meglio i rischi che si assumono. All’epoca ne avevano presi troppi anche perché contavano che in caso di emergenza lo Stato sarebbe intervenuto».

Ma davvero intervenire nelle banche è una perdita per i contribuenti? Negli Stati Uniti il governo lo ha fatto, quindi ha rivenduto le sue azioni guadagnandoci.

«Noi rafforziamo la tenuta del settore finanziario anche per questo, perché i suoi problemi non portino a una crisi economica. Poi, in che misura un salvataggio bancario alla fine costi o meno ai contribuenti, dipende da vari fattori: per esempio, se abbiamo a che fare con istituti sani ma danneggiati da un momento di crisi intensa sui mercati. Altra cosa è quando sono banche senza un modello di business sostenibile o da risanare».

Non pensa che imporre perdite ai creditori per Matteo Renzi diventerebbe un problema politico?

«Può essere. Ma dovremmo per questo derogare a regole piene di buon senso che ci siamo dati insieme? Il governo italiano può sostenere i singoli cittadini, se lo ritiene necessario. Anche se questi interventi vanno coperti finanziariamente in maniera solida».

Per l’Fmi Deutsche Bank rappresenta i rischi maggiori per la stabilità del sistema finanziario e la banca ha fallito gli stress test della Federal Reserve. Perché la vigilanza bancaria tedesca e europea — di cui la Bundesbank è parte — su questo tema tacciono?

«Non mi esprimo sui singoli istituti, però credo che l’Fmi sia stato mal interpretato: non ha esaminato la solidità delle singole banche, ma la loro rilevanza per il sistema finanziario internazionale. E viste le dimensioni e l’alto grado di interconnessione con altre società finanziarie, eventuali problemi di Deutsche Bank potrebbero scaricarsi sul sistema nel suo complesso. Deutsche Bank è in alto grado sistemica, questo è ciò che dichiara quel rapporto dell’Fmi».

In caso di dissesto di una grossa banca tedesca, la Bundesbank spingerebbe perché i creditori condividano il costo del salvataggio, anche a rischio di creare instabilità?

«Abbiamo concordato delle regole e la Bundesbank si impegna perché vangano rispettate. Un coinvolgimento credibile dei creditori è davvero necessario».

È possibile che i tassi scendano ancora, creando ancora più problemi alle banche. Molti prevedono, in reazione alla Brexit, che la Bce diventi ancora più accomodante.

«La mia impressione è che il referendum britannico non abbia cambiato in modo fondamentale le prospettive congiunturali nell’area euro. Ci dovrebbe essere una piccola frenata, ma in generale la progressione andrà avanti. È un po’ presto per pronunciarsi sull’impatto futuro per la dinamica dei prezzi».

Ma la sua posizione qual è?

«I tassi sono già molto bassi, le condizioni finanziarie non presentano veri ostacoli agli investimenti. Ci aspettiamo un graduale miglioramento della congiuntura e un incremento dei tassi d’inflazione verso i nostri obiettivi. Ed è chiaro che con il tempo, l’efficacia di una politica monetaria ultraespansiva sta scemando, mentre aumentano i rischi e gli effetti collaterali».

La Bce compra titoli per circa 80 miliardi al mese, in gran parte pubblici. Tra un po’ non ce ne saranno più molti di Berlino (e di Lisbona) che la Bce possa comprare con le regole attuali. Potreste continuare gli interventi, se volete, oltre marzo?

«Riguardo al programma di acquisti ci sono possibilità di adattamento. Però dobbiamo essere prudenti. Sapete bene che in generale ho delle riserve sugli acquisti di titoli di Stato. Per esempio le quote nazionali nella chiave di capitale hanno un senso, perché mirano fra l’altro ad assicurare l’unitarietà della politica monetaria. Rafforzare gli acquisti di titoli di Paesi con un debito più alto o una minore solidità ci allontanerebbe ancora di più dal nostro mandato».

La sua è una motivazione formale, no?

«Ma ha un fondamento economico. Se si concedono condizioni speciali a singoli Paesi o ci si concentra troppo su Paesi altamente indebitati, si cancellano sempre di più i confini fra la politica monetaria e la politica di bilancio. Questo può mettere in discussione l’indipendenza della Banca centrale, che è un fondamento di una politica monetaria orientata alla stabilità. Alla fine ciò potrebbe generare una pressione perché si tengano i tassi bassi più a lungo del necessario, se dei Paesi molto indebitati non sono in grado di sopportare un aumento degli interessi. Gli economisti in quel caso parlano di dominanza fiscale sulla politica monetaria».

Ci siamo già? L’Italia ha un debito pubblico oltre il 130% del Pil.

«I criteri di Maastricht ci dovrebbero proteggere da questi scenari e un debito oltre il 130% è più del doppio del livello compatibile. Per questo è importante non scalzare la disciplina di mercato. Alti livelli di debito vanno ridotti in fretta».

Se Renzi promettesse di fare tutte le riforme strutturali in cambio del permesso di avere un po’ più di deficit, per non perdere il sostegno del Paese, che ne penserebbe?

«Riforme strutturali e finanza pubblica sana non sono in contrapposizione. L’Italia stessa ha messo in campo alcune importanti riforme che non hanno gravato sul bilancio. Per inciso, ogni governo può sostenere che sta facendo riforme importanti per il proprio Paese. Allo stesso tempo le misure di risanamento sono sempre impopolari e vengono messe nel dimenticatoio, ed è una delle ragioni di debiti così alti. Se sorgesse l’impressione che le norme si interpretano parametrandole alle chance elettorali dei partiti di governo, sarebbe fatale per la capacità della Ue di farsi accettare».

Dopo la Brexit in Italia ci sono state proposte di approfondire l’unione monetaria, in Germania si predilige una pausa. Da che parte sta?

«È un dibattito che ha poco a che fare con la Brexit, ma credo che siamo arrivati a un bivio. Possiamo stabilire un legame ancora più stretto fra noi, per esempio con un bilancio comune. Ma in questo caso dovremmo anche essere pronti a trasferire anche la sovranità a livello europeo. È una disponibilità che non vedo né in Germania, né in Italia».

L’alternativa?

«Un ritorno al principio di responsabilità di Maastricht, sia per gli investitori che per gli Stati. Ma funziona solo se in ultima istanza è possibile anche affrontare e superare l’insolvenza di uno Stato senza che questo porti al crollo del sistema finanziario. Per questo abbiamo bisogno di una più robusta separazione fra banche e Stati, e procedure ordinate in caso di problemi finanziari degli Stati».

Non sembra che i politici siano disposti a scegliere una delle due strade: né la condivisione di sovranità, né procedure d’insolvenza per gli Stati. Significa che il destino dell’euro è segnato?

«La formulerei così: i governi europei hanno preso una via di mezzo che ci fa guadagnare tempo. Ma prima o poi dobbiamo decidere una direzione, se vogliamo ancorare l’unione monetaria come unione di stabilità».

di Federico Fubini

Questa intervista e’ stata originariamente pubblicata dal “Corriere della Sera”, che ringraziamo

Tag

Partecipa alla discussione