Usa-Iran (e Israele): scenari di una crisi

Realistica anche la possibilità di un attacco preventivo condotto dal falco Netanyahu sui siti nucleari iraniani. L'incognita di una Casa Bianca irresponsabile e incompetente.

A una settimana dal 12 maggio, data entro la quale l’amministrazione Usa è tenuta a rinnovare la sospensione delle sanzioni verso Teheran, aumentano le incertezze sul futuro dell’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA) e si inaspriscono i toni delle dichiarazioni dei principali protagonisti. Dopo il discorso del Primo ministro israeliano Netanyahu di lunedì scorso, giovedì il Ministro degli esteri iraniano Javad Zarif ha ribadito che Teheran non ha nessuna intenzione di rinegoziare l’accordo e, anzi, smetterà di implementarlo qualora Washington decidesse di non rinnovare le sospensioni. Intanto, in un colloquio telefonico con Theresa May nel fine settimana, Trump ha ribadito il proprio impegno “a garantire che l’Iran non possieda mai armi atomiche”. Di tutta risposta, rivolto alla nazione in diretta, il Presidente iraniano Hassan Rouhani ha affermato che “se gli Stati Uniti lasciano l’accordo sul nucleare, vedrete molto presto che se ne pentiranno”. Quali sono i diversi scenari che rischiano di aprirsi dopo il 12 maggio e quali implicazioni avranno per la regione? Trump vuole davvero uscire dall’accordo? In questa eventualità, quale potrebbe essere la risposta di Teheran? Cosa può fare l’Unione europea per salvare l’accordo? Questo Focus è il secondo di una serie di approfondimenti ISPI su origineragioni e possibili scenari dell’attuale crisi tra Iran e Stati Uniti.

 

La partita di Netanyahu: cosa chiede Israele?

Le rivelazioni sul programma nucleare iraniano che lunedì scorso sono state al centro di un discorso dal grande impatto mediatico pronunciato dal primo ministro israeliano Netanyahu sono in realtà l’ultimo di diversi tentativi volti a denunciare – e in ultima istanza compromettere – l’accordo sul nucleare iraniano. Le rivelazioni di Netanyahu sono state messe in discussione da diversi osservatori; tra questi l’Unione europea, che da una parte non ha rilevato elementi di inadempienza iraniana nelle presunte prove mostrate da Netanyahu, e dall’altra ha ricordato che fu proprio la mancanza di fiducia nei confronti del programma nucleare iraniano a spingere la comunità internazionale ad avviare il processo negoziale con Teheran che ha poi condotto alla firma dell’accordo. Non è infatti un caso che coinvolgere l’Iran in questo processo, piuttosto che isolarlo, rimane per Bruxelles la migliore opzione per continuare ad affrontare la questione del nucleare iraniano.

Da cosa è motivata dunque l’ostilità israeliana nei confronti di un accordo che sembra di fatto aver drasticamente contenuto quella che Tel Aviv ha sempre considerato come una minaccia esistenziale, vale a dire il pericolo di un Iran dotato di arma nucleare? Le ragioni sono sia di ordine politico interno che regionale. Da una parte, il mantenimento di uno stato costante di allerta nei confronti della “minaccia iraniana” consente al primo ministro di distrarre l’attenzionedell’opinione pubblica israeliana dagli scandali politici legati a episodi di corruzione che proprio in questi mesi rischiano di compromettere gravemente la sua carriera politica. Proponendosi come guardiano dell’ordine regionale, in chiave prevalentemente anti-iraniana, Netanyahu fa di Israele l’alleato indispensabile di Washington – e, in una convergenza inedita, di Riyadh. Ciò non è un caso, perché a fronte della necessità di preservare la propria sicurezza, un legame forte con gli Usa rimane per Tel Aviv una condizione necessaria.

La principale minaccia percepita da Israele in questo senso è infatti proprio il ruolo sempre più importante che l’Iran svolge in Siria, un ruolo che si traduce in un pericoloso avvicinamento delle milizie filo-iraniane e di Hezbollah al confine tra Siria e IsraeleCome ricostruito in questo Focus, si spiega in questo modo il crescente coinvolgimento israelianonella guerra siriana, che a partire dal 30 gennaio 2013 si è concretizzato in bombardamenti effettuati da Israele in territorio siriano contro veicoli trasportanti armi o agenti operativi di Hezbollah, e che negli ultimi mesi ha subito un’evoluzione. Nel mese di aprile Israele ha colpito per la prima volta una base militare gestita da Teheran in Siria causando la morte di diversi ufficiali iraniani. Nella notte di domenica scorsa, il bombardamento da parte degli F-16 israeliani di un’altra base militare, vicino a Hama, dove l’Iran aveva trasferito alcune armi anti-missile, ha indotto diversi osservatori a parlare della possibilità imminente dello scoppio di un’ostilità aperta tra Tel Aviv e Teheran. Questo scenario potrebbe verificarsi se Israele passasse dagli strikes mirati come strumento per ribadire l’invalicabilità delle proprie linee rosse a veri e propri raid punitivi su scala più ampia, o se venissero commessi errori di calcolo tali da scatenare un’escalation.

Per Netanyahu, mettere all’angolo l’Iran anche e soprattutto attraverso il naufragio dell’accordo sul nucleare rappresenterebbe un modo per diminuire l’entità della minaccia. Una scommessa pericolosa, però, che si basa su presupposti errati – è inesatto attribuire all’accordo sul nucleare l’espansione regionale iraniana – e che non sembra prendere in considerazione le implicazioni politiche che un eventuale naufragio dell’accordo avrebbe per Teheran, come il fatto che esso si ripercuoterebbe sia sugli equilibri politici interni (andando a rafforzare proprio il fronte più radicale e a indebolire il presidente Rouhani) sia sugli equilibri regionali.

 

Gli Usa vogliono davvero uscire dall’accordo?

Tecnicamente, il JCPOA non prevede la possibilità di “ritirarsi”: non esistono infatti clausole di ritiro e possibilità di denuncia dell’accordo. Le interpretazioni di Unione europea e Stati Uniti divergono su questo punto: l’Ue, così come Russia e Cina, afferma che la Risoluzione Onu 2231 che ha recepito l’accordo lo rende di fatto vincolante nei confronti di tutti i paesi che hanno sottoscritto la carta Onu; gli Usa invece, già con Obama, hanno più volte ribadito come esso rappresenti un “impegno politico non vincolante”, dunque soggetto alla volontà e alla disponibilità degli stati a rimanerne parte. La modalità attraverso la quale uno stato può di fatto uscire dall’accordo è quella di smettere di adempiere ai propri obblighi. Decidendo di reintrodurre le sanzioni sospese o revocate al momento dell’implementazione dell’accordo, così come decidendo di introdurne di ulteriori – sempre legate al programma nucleare – gli Usa cesserebbero di fatto di essere parte dell’accordo.

La reimposizione delle sanzioni in precedenza sospese – ovvero l’atto che Trump potrebbe compiere il prossimo 12 maggio – è dunque uno dei diversi modi che gli Usa hanno a disposizione per smettere di implementare l’accordo. Non è quindi detto che, passata indenne la scadenza del 12 maggio, l’accordo sia salvo. In qualsiasi altro momento dell’anno, il presidente Usa potrebbe decidere di reintrodurre le sanzioni imposte tramite Ordine esecutivo che erano state revocate, o di ridesignare i soggetti che al momento dell’implementazione del JCPOA erano stati rimossi dalle liste nere dei soggetti sotto sanzione. Anche queste azioni rappresenterebbero di fatto un abbandono dell’implementazione Usa dell’accordo.

Guardando alle azioni compiute dal presidente statunitense relativamente al JCPOA nel corso di questi mesi, si può notare come Trump sembri prediligere un atteggiamento di minaccia perenne, volto ad alimentare un clima di crisi e aleatorietàattorno al futuro dell’accordo, che in ultima analisi rappresenta il maggiore ostacolo alla normalizzazione delle relazioni economiche e commerciali con l’Iran. Lo spettro continuo di un’uscita di Washington e di una reimposizione delle sanzioni secondarie Usa è di per sé sufficiente a tenere l’accordo in uno stato di “coma permanente” che consente agli Usa di ottenere un doppio vantaggio: impedire a Teheran di raccogliere i benefici economici che le erano stati promessi – e con essi la normalizzazione delle relazioni con la comunità internazionale -, al contempo salvare le apparenze, continuando a rimanere formalmente parte dell’accordo.

 

Cosa può fare l’Iran?

Di fronte alla minaccia Usa di uscire dall’accordo, in un primo momento l’Iran ha adottato un atteggiamento di rassicurazione, dichiarando che, fintanto che anche l’Unione europea continuerà a implementare l’accordo, rimarrà nel JCPOA anche a fronte di un’uscita Usa. Nell’ultimo periodo però i toni si sono inaspriti: dopo l’incontro tra Trump e Macron e l’annuncio da parte del presidente francese dell’intenzione di negoziare un accordo “più ampio”, Rouhani ha espresso la propria chiusura nei confronti di qualsiasi ipotesi di cambiamento dell’accordo. Teheran ha inoltre fatto sapere che, se gli Usa dovessero uscire dall’accordo, è pronta a riprendere le proprie attività di arricchimento nucleare. È difficile a questo stadio distinguere nelle dichiarazioni dell’Iran le intenzioni reali dalla retorica. In concreto, la risposta iraniana a un’uscita Usa dal JCPOA potrebbe variare in base al fatto che gli Usa reintroducano tutte le sanzioni o solo una parte. L’Iran potrebbe avere a disposizione diverse opzioni.

La prima opzione è quella di utilizzare il meccanismo di risoluzione delle controversie previsto dall’articolo 36 del JCPOA. Se l’Iran decidesse di attivare l’articolo 36 e formulare un reclamo formale presso la Commissione congiunta, si aprirebbe un periodo di 15 giorni in cui la Commissione dovrebbe valutare – e nella migliore delle ipotesi risolvere – la questione, in alternativa deferendola a livello ministeriale. Anche i ministri degli Esteri dei paesi firmatari avrebbero a disposizione 15 giorni per tentare di risolvere la questione. Se anche questa strada fallisse, verrebbe formato un organo consultivocomposto da tre membri: un rappresentante dello stato che ha formulato il reclamo (in questo caso l’Iran), uno del paese oggetto del reclamo (gli Usa) e un membro indipendente. Questo organo avrebbe a disposizione 15 giorni per valutare la questione ed emettere un’opinione non vincolante da sottoporre alla Commissione congiunta, la quale a sua volta avrebbe 5 giorni di tempo per accettarla o respingerla. Se la questione rimanesse irrisolta, l’Iran potrebbe fare appello al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dove però gli Usa – in quanto membro permanente – potrebbero porre il veto su qualsiasi risoluzione formulata. Questo processo, che impiegherebbe un periodo di 35 giorni, difficilmente si concluderebbe con un risultato positivo per l’Iran: l’articolo 36 è stato specificamente formulato nell’ipotesi che fosse Teheran a violare l’accordo, e pertanto dà agli Usa l’ultima parola su qualsiasi provvedimento. L’utilizzo di questo meccanismo, tuttavia, contribuirebbe a livello politico a far cadere sugli Usa il peso del naufragio dell’accordo; Teheran, al contempo, potrebbe rivendicare di avere agito all’interno del contesto istituzionale previsto dall’accordo, e di essersi dunque mantenuta nel rispetto del processo multilaterale.

Al di là di questa opzione “multilaterale”, l’Iran potrebbe agire unilateralmente, decidendo di cessare di adempiere ai propri obblighi, riprendendo per esempio le attività di arricchimento dell’uranio e le altre attività nucleari; potrebbe altresì rimanere parte del JCPOA ma cessare l’applicazione del Protocollo aggiuntivo del Trattato di non proliferazione nucleare(NPT), impedendo dunque agli ispettori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) di avere accesso ai siti nucleari; infine, nell’ipotesi più drastica, potrebbe ritirarsi dall’NPT e perseguire apertamente la strada del nucleare, sfuggendo a qualsiasi restrizione o controllo.

La scelta di quale opzione utilizzare dipenderà in larga misura dall’impatto di un’eventuale reimposizione delle sanzioni sugli equilibri politici interni all’Iran: se Rouhani riuscisse a mantenere il controllo del processo decisionale, potrebbe optare per la soluzione multilaterale. Il presidente iraniano però potrebbe essere messo in difficoltà dagli elementi più radicali del regime, che vedono nell’ostilità Usa un elemento di umiliazione e premerebbero con ogni probabilità per opzioni unilaterali.

 

Cosa succede se gli Usa escono dall’accordo?

Uno dei principali interrogativi di queste settimane è se l’accordo possa sopravvivere anche nel caso di un’uscita degli Usa. La risposta non può che essere: dipende. Se l’Iran decidesse di non rispondere al ritiro Usa ritirandosi a sua volta, l’accordo potrebbe sopravvivere se anche Ue, Cina e Russia (gli altri stati parte del P5+1) continuassero a implementarlo. Questi paesi hanno esplicitamente manifestato la propria opposizione alla reintroduzione delle vecchie sanzioni, o all’introduzione di nuove sanzioni relative al programma nucleare, il che lascia presupporre che per gli Usa potrebbe essere difficile ricreare quel consenso internazionale attorno al regime sanzionatorio che è stato invece alla base del successo negoziale del 2015.

L’Unione europea, per proteggere le proprie imprese dalle sanzioni secondarie Usa – che hanno il carattere dell’extra-territorialità –, dovrebbe adottare un Regolamento (“Blocking Regulation”) che scherma i soggetti Ue dalle sanzioni Usa, oppure chiedere a Washington di essere esentata. Se così non fosse, l’Ue sarebbe obbligata nei fatti a scegliere tra il mercato iraniano e continuare ad avere accesso al mercato Usa; la scelta ricadrebbe con ogni probabilità sul secondo, considerando le dimensioni e l’importanza dei legami economici transatlantici rispetto a quelli Ue-Iran. In questi mesi l’Ue non è riuscita ad elaborare una strategia in grado di prevenire questo scenario. Francia, Germania e Regno Unito (EU3) hanno sì avviato dei negoziati per raggiungere un compromesso con Washington che soddisfacesse le esigenze di Trump, ma non hanno raggiunto nessuna intesa o rassicurazione sulla permanenza degli Usa nell’accordo e quindi sulla sua sopravvivenza. L’Ue si è anzi riscoperta impreparata a difendere con efficacia i propri interessi a fronte delle pressioni Usa. Piuttosto, assecondando Trump, gli EU3 hanno ceduto alla richiesta statunitense di ampliare il JCPOA o concludere un nuovo accordo per affrontare quei temi non relativi all’accordo sul nucleare che sono però motivo di preoccupazione per gli Stati Uniti, come il programma missilistico di Teheran e il ruolo iraniano nella regione.

Nei fatti, il naufragio del JCPOA potrebbe non essere automatico dopo l’uscita Usa, ma più probabile in un secondo momento, a causa del graduale ritirarsi di tutte quelle imprese sottoposte alla minaccia delle sanzioni secondarie Usa. A quel punto, anche per l’Iran sarebbe difficile – anche solo per motivi legati ai delicati equilibri politici interni – continuare ad adempiere ai propri obblighi.

A seconda dell’entità delle sanzioni Usa reintrodotte, e a seconda della risposta di Unione europea, Cina e Russia, la risposta iraniana potrebbe essere più o meno forte: potremmo assistere a una intensificazione dei test missilistici e, nello scenario peggiore, a un esacerbarsi della violenza nei teatri di crisi mediorientale dove l’Iran è presente con le milizieche compongono la propria “difesa avanzata”, basata sul contenimento delle minacce alla propria sicurezza lontano dai propri confini nazionali.

In uno scenario più ampio, la ripresa delle attività nucleari da parte dell’Iran potrebbe portare a una corsa al nucleare nella regione, con altri paesi – in primis l’Arabia Saudita, che ha già manifestato questa intenzione – che cercano di dotarsi della tecnologia nucleare per controbilanciare le capacità iraniane. Tornerebbe a essere più realistica anche la possibilità di un attacco preventivo condotto da Israele sui siti nucleari iraniani, allo scopo di riportare indietro le lancette dell’orologio atomico. Tutti scenari di cui si discuteva prima del 2015, ovvero prima della firma dell’accordo nucleare che sembrava aver risolto in maniera pacifica e multilaterale la crisi.

Infine, allargando ancora il quadro, non sono da escludere implicazioni per l’altra grande crisi nucleare attuale: quella della Corea del Nord. Alla vigilia dell’atteso incontro tra Trump e Kim Jong Un, l’uscita degli Usa dal JCPOA potrebbe disincentivare la Corea del Nord a concludere un accordo con gli Usa. La decisione di Trump – abbandonare un accordo che sta funzionando – potrebbe ridurne la credibilità anche in questa sede negoziale.

Fonte: Ispi

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