Derivati: Corte Conti inchioda Tesoro (Cannata) e Morgan Stanley: 4,1 miliardi di danni

La vicenda risale al 2011-2012, quando – nel pieno della turbolenza causata dall’aumento degli spread – Morgan Stanley chiese l’attivazione della clausola per la risoluzione di contratti firmati …

La vicenda risale al 2011-2012, quando – nel pieno della turbolenza causata dall’aumento degli spread – Morgan Stanley chiese l’attivazione della clausola per la risoluzione di contratti firmati fra il 1999 e il 2005.

“Sconcertante”. E’ la parola che descrive meglio la vicenda che tra il 2011 e il 2012 ha portato lo Stato italiano a versare nelle casse della banca d’affari, Morgan Stanley, 3,1 miliardi di euro pubblici per chiudere quattro contratti derivati e rinegoziare due coperture sulle valute. A scriverla nell’inedito atto di citazione è la Corte dei Conti che ha contestato ai presunti colpevoli un danno allo Stato di 4,1 miliardi e che il mese scorso ha spedito la Guardia di finanza al Ministero dell’Economia a raccogliere altri documenti.

Eppure, dopo cinque anni, Morgan Stanley continua a far parte dell’elenco degli specialisti che insieme con il Tesoro gestiscono il debito pubblico e il direttore del dipartimento è ancora Maria Cannata. L’elenco delle banche è stato rivisto nel 2016, ne sono uscite Credit Suisse e Commerzbank, mentre Morgan Stanley è rimasta tra gli specialisti. Cannata, invece, nella veste di direttore del debito pubblico, continua, ininterrottamente dal 2000, a trattare emissioni e derivati con le principali banche del mondo.

Derivati, l'accusa della Corte dei Conti: "Tesoro negligente"

Anche dopo aver fatto sottoscrivere al Tesoro contratti che la Corte dei conti ha definito speculativi, perché lasciavano non allo Stato, ma alle banche, la scelta di attivarli. E li attivavano solo se favorevoli a loro: per una commissione di 47 milioni nel 2004, Morgan Stanley nel 2012 ha incassato un miliardo su un solo derivato.

Secondo la Corte dei Conti, la banca sarebbe responsabile del 70% dei danni causati, mentre il restante 30% se lo suddividono Cannata, con un ruolo preponderante (un miliardo di euro), il suo predecessore Vincenzo La Via e gli ex direttori del Tesoro, Domenico Siniscalco e Vittorio Grilli.

La colpa di Morgan Stanley è di essersi approfittata del suo ruolo di specialista, un compito che viene regolato dalla legge. Tra i vantaggi di esserlo, c’è quello di poter stipulare contratti derivati con lo Stato italiano. Ma esistono anche degli obblighi che la banca Usa avrebbe tranquillamente disatteso. Gli specialisti non sono semplici collocatori di Buoni del Tesoro, devono contribuire alla gestione del debito pubblico, alle scelte di emissione “anche mediante attività di consulenza e ricerca” (Dm 13 maggio 1999, n.219). Morgan Stanley doveva aiutare il Tesoro a gestire il debito nel tempo, trovando di volta in volta le soluzioni migliori per ridurlo. Nel 2011 la banca Usa aveva 19 contratti derivati aperti con lo Stato italiano, in diverse valute pari a oltre 10 miliardi di euro, 2,2 miliardi di sterline, 1,1 miliardi di franchi svizzeri e 2 miliardi di dollari, con durate dai 10 ai 40 anni. Prima, nel 1994, quando al Tesoro c’era ancora Mario Draghi, Morgan Stanley aveva ottenuto la possibilità di uscire da tutti i contratti derivati qualora il valore della sua esposizione creditizia nei confronti della Repubblica avesse superato una soglia che variava dai 50 ai 150 milioni a seconda del rating dello Stato italiano.

Diciassette anni dopo la banca decide di azionare la clausola e chiuderli tutti, contravvenendo al suo ruolo di “gestore del debito ” di lungo periodo: “ha commesso – scrive la Corte – palesi violazioni dei principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione contrattuale”. La banca ha cercato di giustificare la sua scelta con il repentino aumento dello spread, quello che portò alla caduta di Berlusconi e all’arrivo di Monti; ma per l’accusa la motivazione non regge, perché la clausola di risoluzione non era per nulla legata allo spread, ma all’aumento dell’esposizione della banca, la cui soglia era stata già superata da almeno dieci anni, e al cambiamento di rating dell’Italia, che però avvenne a opera di S&P e Moody’s ben dopo la risoluzione dei contratti.

IMPORTO DANNO
I DANNI RICHIESTI
MORGAN STANLEY      4.112.998.409,00   2.879.098.886
MARIA CANNATA         629.443.515,54         94.416.527
        641.494.010,00       179.618.323
1.666.088.450       449.843.882
        277.810.927,37         41.671.639
        403.231.150,00       120.969.345
        158.060.475,37         23.709.071
        336.859.881,22         97.689.366
  1.007.918.153
VINCENZO LA VIA         629.443.515,54         62.944.352
        158.060.475,37         22.128.467
        277.810.927,37         27.781.093
      112.853.911
DOMENICO SINISCALCO         629.443.515,54         31.472.176
1.666.088.450         49.982.654
        277.810.927,37           8.334.328
        89.789.157
VITTORIO GRILLI         641.494.010,00         12.829.880
        277.810.927,37           5.556.219
        336.859.881,22           3.368.599
        158.060.475,37           1.580.605
        23.335.302
TOTALE   4.112.995.409

I dirigenti del Tesoro, invece, hanno altre colpe, prima fra tutte “la negligenza”. “Personalmente – dichiara a verbale Cannata – non avevo conoscenza di tale clausola sino al momento in cui non abbiamo dovuto assorbire il pacchetto dei contratti ex Ispa (2006)”. Eppure la dirigente aveva firmato tutti i contratti e, in conflitto di interesse, anche i relativi decreti di approvazione. E ha continuato a firmarli anche dopo, aumentando il rischio per i contribuenti. Il Tesoro non predispone nemmeno le garanzie collaterali (soldi o titoli) che per contratto avrebbero potuto neutralizzare la chiusura dei derivati. Di fronte a un pegno vincolato, una sorta di garanzia che i soldi c’erano, Morgan Stanley non poteva agire. Dall’inchiesta, però, è emerso che il Tesoro non solo non era capace di predisporre i collaterali, ma aveva perfino “carenza di risorse strumentali e di personale adeguato”, tanto da non essere in grado di ponderare il rischio dei contratti che andava sottoscrivendo.

Il Tesoro era in balia della banca: nel 2008 si accolla un derivato Ispa, peggiorando a suo danno le condizioni contrattuali e accetta di cambiare come controparte Morgan Stanley derivative products con Morgan Stanley & Co International, che a differenza della prima, che manterrà il rating A fino a dicembre 2009, nello stesso 2008 viene declassata per ben due volte sotto il livello minimo di eleggibilità.

La situazione di deferenza del Tesoro è evidente. Anche nella chiusura dei derivati: accetta di dividere in due l’operazione con un aggravio di oltre 500 milioni. Del resto gestire 2.200 miliardi di debito pubblico senza l’intermediazione delle banche d’affari è impossibile. Chi ha debiti, è da sempre in mano alle banche. Come vadano, poi, le carriere dei direttori del Tesoro è sotto gli occhi di tutti: Draghi approdò in Goldman Sachs, Siniscalco in Morgan Stanley e Grilli in Jp Morgan.

***

Procede senza indugio l’inchiesta della Corte dei Conti sulla vicenda dei derivati sottoscritti dal ministero del Tesoro (Mef) con Morgan Stanley e chiusi anticipatamente tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012. I magistrati contabili chiedono alla banca americana e a quattro tra ex e attuali dirigenti di Via XX settembre un danno erariale per 4,1 miliardi. La notizia era già rimbalzata all’inizio di agosto da parte della stessa Morgan Stanley, la quale ne aveva fatto cenno nella trimestrale.

A ricevere l’invito a presentare le carte sono i dirigenti che hanno firmato (e poi chiuso) quei contratti: Maria Cannata, attuale direttore del debito pubblico, Vincenzo La Via (oggi direttore generale del Tesoro), Domenico Siniscalco, direttore generale del Tesoro all’epoca della stipula dei contratti e oggi vicepresidente per l’Europa proprio di Morgan Stanley e infine Vittorio Grilli, direttore generale al momento della chiusura dei contratti, oggi ai vertici di JpMorgan.

L’inchiesta della Corte dei Conti procede nonostante – ad aprile dell’anno scorso – la Procura di Roma abbia chiesto al Tribunale dei ministri l’archiviazione per la stessa inchiesta di Mario Monti, all’epoca dei fatti premier. «La clausola di estinzione anticipata era stata apposta legittimamente, ed è stata legittimamente esercitata da Morgan Stanley nell’ambito delle sue facoltà contrattuali», si leggeva nelle motivazioni della procura. Stessa richiesta era stata sollecitata per Maria Cannata, accusata di manipolazione del mercato, truffa e abuso d’ufficio.

La vicenda risale al 2011-2012, quando – nel pieno della turbolenza causata dall’aumento degli spread – Morgan Stanley chiese l’attivazione della clausola per la risoluzione di contratti firmati fra il 1999 e il 2005. Secondo la Corte dei Conti – dell’inchiesta si sono occupati Massimiliano Minerva e prima di lui il mancato assessore al Bilancio di Roma Raffaele De Dominicis – la clausola di recesso era incompatibile con una sana gestione del debito pubblico.

Un anno fa la Procura di Roma ha detto l’opposto: «La Repubblica italiana non disponeva di valide ragioni per contestare sul piano giuridico né la legittimità e la validità della clausola, né la legittimità del suo esercizio». Di più: «La sua mera inadempienza di fatto avrebbe comportato per la Repubblica un danno facilmente intuibile in termini di reputazione e difficilmente calcolabile nei suoi effetti economici». Motivazioni che evidentemente non hanno spostato di un millimetro l’orientamento della Corte dei Conti.

 

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1 commento

  1.   

     

    Magari..La capotreno Cannata, finisse su un binario morto e pagasse i danni…!
    Si e’ sempre rifiutata di mostrare i Contratti con G&S e Morgan Stanley..
    Non ci posso credere che qualcuno paghera’, finalmente..!!