Hong Kong, tutta affari e poca politica. Ognuno ne ha tratto vantaggio

Oggi, i dividendi  sono controllati da Pechino. Come è stato possibile? Le responsabilità vanno cercate non solo a Londra. Bisogna rivolgersi anche a Pechino e cercare nella stessa HK.

di J.J. Gittes

(WSC) ROMA – Chris Patten, l’ultimo governatore di Hong Kong, sostiene che la diversità dell’ex colonia stia sbiadendo. Ormai il controllo di Pechino è pressochè totale. Gli spazi democratici si stanno stringendo. Afferma inoltre che la conduzione di Carrie Lam, l’attuale Chief Executive, sia lamentable, deplorevole, censurabile. Vecchia volpe della politica, Patten ha ragione in tutti i sensi. Non si avventura su terreni scivolosi, non ricorda, forse si era fidato troppo di Pechino.

Eppure era adulto, con una laurea a Oxford quando Hong Kong stava precipitando nella guerra civile. Nel 1967 aveva 23 anni. Ricorda certamente le manifestazioni oceaniche dei cinesi di Hong Kong che attaccavano il Regno Unito, gridavano slogan contro il colonialismo, esigevano il ricongiungimento alla madre patria. Gli studenti, gli operai, i pescatori erano in prima fila. I sindacati minacciavano l’ordine economico della colonia, la stabilità finanziaria, la borghesia commerciale cinese. Allora Hong Kong era un opificio laborioso. Al contrario di oggi, il panorama presentava fabbriche e grigiore, talvolta ciminiere, spesso sottoscala. Stava prendendo la rincorsa per divenire una Tigre Asiatica, per accogliere gli investimenti produttivi delle multinazionali. 

I protestanti reclamavano salari per vivere – non sopravvivere – pause per riposarsi, disponibilità di aria condizionata, accesso all’istruzione. Non volevano più dormire in otto per stanza. Succedeva ovunque nel mondo. Ma alle loro spalle Pechino premeva per sfide politiche, quelle che conducevano al recupero dell’isola. Era la Cina della Rivoluzione Culturale, dell’eterno nazionalismo stavolta tinto di rosso.

I Comandanti della Regione Sud – la provincia del Guangdong che circonda Hong Kong – erano pronti, forse avevano acceso i motori dei camion militari. Per Londra la doppia rivendicazione – sindacale e politica – si stagliava insopportabile. Le trattative riservate non avevano condotto a risultati. Le proteste diventavano un problema di ordine pubblico. Meglio inviare i poliziotti cinesi di HK contro i manifestanti cinesi di HK.

La tecnica era diffusa: disporre i colonizzati su versanti contrapposti. Gli inglesi la maneggiavano in maniera insuperabile. Nei 18 mesi di proteste si contarono 51 morti, soprattutto tra i manifestanti. La violenza si era impadronita della città. La repressione si abbatteva sui dimostranti, tra pestaggi a morte, attentati, barricate, violenza ideologica che sembrava non componibile. La regia veniva da Londra, gli ordini dal predecessore di Patten.

La Cina rimaneva rumorosa ma impotente, troppo debole per cercare avventure ingestibili. La Casa reale fu riconoscente con la Police Force che due anni dopo poté fregiarsi dell’aggettivo Royal. I Windsor sanno essere generosi.

Pensare che quei rancori sarebbero stati sopiti dall’accordo Thatcher-Deng è stata al meglio un’ingenuità. Bastava leggere qualsiasi sussidiario per capire che Pechino non avrebbe incontrato ostacoli alla sua piena sovranità, una volta raggiuntala formalmente. A questa illusione si accompagna una responsabilità grave per Londra: non avere costruito una base socio-politica che innervasse la democrazia, ne incarnasse gli ideali, ne rappresentasse le aspirazioni. Per tanti, troppi decenni, Hong Kong è stata costruita sugli affari. Democrazia, diritti umani, libertà di espressione non sono stati coltivati, talvolta repressi con forza. Tutti ne hanno tratto vantaggio.

Oggi, i dividendi  sono controllati da Pechino. Come è stato possibile? Le responsabilità vanno cercate non solo a Londra. Bisogna rivolgersi anche a Pechino e cercare nella stessa Hong Kong.

2 – continua 

Articolo precedente: Hong Kong: la predizione di Patten, ultimo governatore British

 

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