La ricetta vincente degli Usa. Ma fino a che punto?

La scorsa settimana, Barack Obama e le figlie sono andati a vedere «Hamilton», il musical-rap che sta facendo impazzire Broadway. Un’opera hip-hop su Alexander Hamilton, il padre fondatore …

La scorsa settimana, Barack Obama e le figlie sono andati a vedere «Hamilton», il musical-rap che sta facendo impazzire Broadway. Un’opera hip-hop su Alexander Hamilton, il padre fondatore della Federal Reserve e della Bank of New York è la cornice perfetta per inquadrare le politiche economiche di un Presidente che ha attinto dal vecchio e dal nuovo per far ripartire l’America.

In Europa, il dibattito sulla crescita è un melodramma, con la Merkel e i suoi che fanno serenate all’austerità e i governi che fanno finta di non sentirli. Alcuni, come quelli italiano e spagnolo, almeno qualche riforma la provano, altri, come quelli francese e greco, le evitano a tutti i costi. Il risultato è uno spettacolo tragico-comico che ha prodotto solo recessione o crescita anemica sin dalla crisi finanziaria del 2008. La Banca Centrale Europea fa tutto il possibile, come direbbe Mario Draghi, ma non è mai abbastanza. Negli Usa, il ritmo è ben altro. Un po’ per fortuna e un po’ per bravura, gli uomini del presidente Obama hanno trovato una formula per ricostruire il Paese che era stato l’epicentro del terremoto del 2008. I risultati non si discutono.

Spinti da una disoccupazione ai minimi, un ritorno di fiamma dei consumi e un mercato immobiliare in grande spolvero quest’anno gli Usa dovrebbero crescere del 2,5%, quasi il doppio dell’1,5% della zona-euro (l’Italia è allo 0,7%) stando alle previsioni del Fondo Monetario Internazionale. E l’anno prossimo, l’America raggiungerà una velocità di crociera del 3%, un livello molto elevato per un’economia sviluppata e di dimensioni enormi. Come ci sono riusciti ? La formula è semplice ma non ortodossa, come le melodie di «Hamilton»: molto Keynes, un pizzico di Marx e una dose di Ayn Rand e Mark Zuckerberg.

Partiamo da Keynes. Nonostante gli stereotipi sull’Europa dai governi spendaccioni e l’America del libero mercato, furono gli Stati Uniti a iniettare centinaia di miliardi di dollari nell’economia durante i giorni di fuoco della crisi. E ad aprire i rubinetti del denaro non furono i democratici di Obama ma i repubblicani di Bush e Hank Paulson, l’ex capo di Goldman Sachs che era segretario del Tesoro. Spesero circa 400 miliardi di dollari per salvare tutte le grandi banche, ricapitalizzare Aig, la compagnia di assicurazioni che dondolava sul baratro, e fare la respirazione artificiale a un’industria automobilistica che stava per spirare. «Se questo non funziona, continuano a comprare roba fino a quando funziona», mi disse uno dei luogotenenti di Paulson all’epoca.

Il fantasma di Keynes aleggia sull’economia americana per tante ragioni ma una, non ben conosciuta, è l’ascesa di un gruppo di economisti che hanno tutti studiato al prestigioso Massachusetts Institute of Technology. Tra di loro, Ben Bernanke, il capo della Fed negli anni della crisi, Oliver Blanchard, il capo economista del Fmi e Paul Krugman, il potentissimo editorialista del New York Times (anche Draghi fa parte del gruppo). Una volta arrivati al potere, i democratici non si sono fatti pregare. A meno di tre mesi dalla sua vittoria storica, Obama passò un pacchetto di circa 800 miliardi di dollari, pieno di programmi di spesa e sgravi fiscali per famiglie e aziende. E tutto ciò senza contare lo stimolo più grande e più importante: i tassi d’interesse a zero della Fed di Bernanke e Janet Yellen.

Gli amanti del ciclismo possono apprezzare la differenza: le misure di spesa sono come dare all’economia una bicicletta di gran qualità; i tassi d’interesse a zero sono come il doping. Se il denaro è gratis, i prestiti diventano più appetibili, gli investitori ritrovano il gusto del rischio, mandando i mercati azionari alle stelle, e le aziende possono assumere e investire a costi più bassi. Ed è qui che arriva Marx. Invece di lasciare la libera mano del mercato agire indisturbata, Washington ha tentato di guidarla con regole tostissime per banche e banchieri e aiuti per i poveri. Ha funzionato? Non si sa. La disoccupazione è calata ma le cifre sono falsate dal fatto che molta gente, soprattutto tra i meno benestanti, ha smesso di cercare lavoro. E la sperequazione tra l’«uno per cento» degli straricchi e la base della piramide del reddito rimane a livelli record.

Nonostante ciò, il governo americano non ha perso molti soldi in questo sforzo storico per trainare l’economia fuori dalle sabbie mobili della recessione. Gli aiuti alle banche sono stati quasi tutti ripagati, Aig ha ridato i soldi con gli interessi e il resto è poca roba visto il potere del dollaro. Queste sono le pagine del manuale made-in-Usa che si potrebbero applicare all’Europa. E non è un caso che la Bce abbia «copiato» la Fed con la sua politica dei tassi bassi, il problema per molti Paesi europei è che i livelli di debito pubblico sono così alti che non è possibile pensare a programmi di spesa o a sgravi fiscali di grande respiro.

Il contributo di Ayn Rand e Mark Zuckeberg alla ripresa Usa è forse più importante ma più difficile da replicare nel vecchio continente. La Rand, filosofa conservatrice dell’essere umano come «eroe» del suo destino a dispetto di governi e burocrazie, è la santa protettrice di tutto il ceto imprenditoriale degli Usa. L’idea che tutto è possibile, che le idee e i sogni si possono trasformare in realtà è alla base della società e della cultura Usa (basta chiedere ad Alexander Hamilton, figlio di una prostituta delle Indie dell’Ovest e padre fondatore degli Stati Uniti). Il corollario di questa ideologia è che lo Stato si deve togliere di mezzo, facilitare piuttosto che impedire, lasciare che gli imprenditori facciano il loro mestiere.

C’è, ovviamente, un prezzo: un mercato del lavoro in cui i dipendenti hanno pochissime garanzie, uno Stato sociale quasi inesistente e i divari di reddito che portano a tensioni razziali e lotte di classe sempre più preoccupanti. Ma la struttura statunitense in cui chi vuole può fare il funambolo senza rete, ha prodotto Mark Zuckerberg e Facebook, Google e Microsoft e poi ancora Uber, Airbnb, Instagram ma anche principi della finanza quali Warren Buffett e Jamie Dimon. «L’unico rischio è non correre rischi. L’unica strategia che è destinata a fallire è non correre rischi». Lo ha detto Zuckerberg ma potrebbe essere il motto di Silicon Valley – un crogiolo di gente forse anche pazza ma che non ha paura di fallire. La domanda di fronte all’Europa e alla sua crescita fiacca è se vale la pena trovare una traduzione per quelle parole.

di Francesco Guerrera

Questo articolo e’ stato originariamente pubblicato da La Stampa

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