Il rischio del contagio cinese

Del crollo della Borsa di Shangai si è detto tanto. Minore l’enfasi, invece, sul rallentamento della locomotiva cinese. Eppure, l’eventuale contagio potrebbe venire proprio da lì. Dall’economia reale.Ieri …

Del crollo della Borsa di Shangai si è detto tanto. Minore l’enfasi, invece, sul rallentamento della locomotiva cinese. Eppure, l’eventuale contagio potrebbe venire proprio da lì. Dall’economia reale.Ieri il Pmi manifatturiero del Paese del Dragone si è confermato sotto la soglia di 50. Cioè, il livello che separa l’espansione dalla contrazione economica.

Certo, i mercati hanno reagito negativamente. E, però, nel radar degli operatori il rallentamento del Pil di Pechino non è così al centro dello schermo. Il che può essere un rischio. A ben vedere le cinghie di trasmissione del problema, al di là dell’opacità nella governance politico-economica di Pechino, sono diverse. La prima riguarda l’appetito di materie prime oltre la Grande Muraglia. I tassi di crescita del Prodotto interno lordo cinese, seppure «lunari» rispetto a quelli dell’Occidente, sono in discesa. Una frenata che, tra le altre cose, induce il calo di domanda di commodity. Il quale, a sua volta, è tra le cause dell’attuale riduzione dei prezzi. In un simile contesto l’inflazione, giocoforza, rischia di raffreddarsi. Non solo oggi. Bensì anche, e soprattutto, in futuro.

La Bce, nelle strategie di politica monetaria, guarda con attenzione all’andamento di un derivato che stima, tra 5 anni, le attese sul costo della vita nel quinquennio successivo. Ebbene, questo indicatore in giugno era salito oltre l’1,85%. Adesso viaggia intorno all’1,76%. Una dinamica al ribasso che suona come campanello d’allarme. Potrebbe, nell’ipotesi proseguisse, indurre dei dubbi sull’efficacia dell’allentamento quantitativo della Bce. Almeno, nell’ammontare attuale. Certo, può obiettarsi che nel gennaio scorso l’indicatore era ancora più giù (1,6%). Inoltre, lo stesso Mario Draghi ha più volte sottolineato di aspettarsi il calo del prezzo del petrolio. Ciò detto, il rischio di contagio dall’economia reale di Pechino non deve sottovalutarsi. Anche perché esistono altre cinghie di trasmissione del problema. Tra queste una va ricordata: quella che coinvolge gli altri Paesi emergenti, in particolare se produttori di materie prime. Lo scenario che può configurarsi è il seguente: la discesa delle commodity mette sotto pressione le economie degli emerging produttori/esportatori di materie prime. Questi, alle prese spesso anche con gestioni politiche a dir poco problematiche, sono obbligati ad affrontare periodi di difficoltà. Che possono tradursi, come nel caso del Brasile, in fasi recessive. Ebbene, proprio qui può innestarsi il contagio.

Molte multinazionali occidentali, comprese quelle italiane, hanno fatto dell’espansione in aree quali il Sud America un loro punto fermo. È banale dire che, nel momento in cui le prospettive sbiadiscono (se non addirittura si offuscano), lo sviluppo del conto economico di questi gruppi può limitarsi. Con il che gli eventuali utili, e cedole, potrebbero essere limati. Qui, a ben vedere, una seria obiezione alla considerazione descritta non manca. I gruppi multinazionali giocano su diversi mercati: l’eventuale calo in uno viene più che controbilanciato dal rialzo in un altro. Vero! E però la miscela incendiaria che si agita sui mercati resta rischiosa. Anche perchè il tanto atteso rialzo dei tassi della Fed potrebbe innescare un duplice effetto negativo sugli emerging: da una parte, l’aumento del debito denominato in dollari; e, dall’altro, la fuoriuscita di capitali. Insomma, il mondo reale (in questo caso cinese) non va sottovalutato. E, ancora una volta, i guardiani cui sembra dovremo affidarci sono i banchieri centrali.

di Vittorio Carlini

Questo articolo e’ stato originariamente pubblicato da Il Sole 24 Ore

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