Alert CLO: banche tradizionali sull’orlo del precipizio

Il sistema è di nuovo in crisi e stavolta, contrariamente al 2008, le autorità potrebbero non essere in grado di salvarlo. In Usa 100 miliardi di derivati non contabilizzati.

(WSC) NEW YORK – Minacciate dalle stelle nascenti del FinTech e alle prese con margini in restringimento per via delle politiche monetarie ultra accomodanti di mezzo mondo, le banche tradizionali sono sull’orlo del collasso. Sebbene da un lato la crisi di Covid-19 abbia portato a un incremento dei conti correnti aperti in banca nell’area industrializzata, da un altro ha anche accelerato la digitalizzazione del settore finanziario.

Nel campo tecnologico e delle App per gestire i propri investimenti e finanze, i grandi gruppi bancari sono indietro rispetto a realtà all’avanguardia della finanza a portata di clic, come Revolut e N26. I bilanci delle principali banche americane sono traballanti e questo potrebbe avere un effetto cataclisma sul resto dell’economia, già alle prese con una difficile ripresa dopo la riapertura a rallentatore delle attività in seguito ai lockdown.

Frank Partnoy, che negli Anni 90 faceva parte del gruppo di dipendenti di Morgan Stanley che ha strutturato e venduto derivati CDO e CLO (“Collateralized Loan Obligation”), ipotizza su The Atlantic uno scenario catastrofico. Se, oltre a tutta l’incertezza che circonda la pandemia, il settore finanziario dovesse crollare per colpa del crac del debito societario, il sistema finanziario subirebbe un capitombolo persino peggiore di quello sperimentato con la crisi subprime.

“Un crollo persino peggiore” rispetto al 2008

“Si può pensare che una tale crisi sia improbabile, con i ricordi del crollo del 2008 ancora così freschi. Ma le banche hanno imparato poche lezioni da quella calamità“. “Le nuove leggi volte a evitare che le banche assumessero troppi rischi non sono state efficaci”.

Di conseguenza, “potremmo essere sull’orlo di un nuovo crollo, diverso da quello del 2008, meno in natura che in grado. Questo potrebbe essere persino peggiore“, osserva Partnoy.

Se nel 2008 furono i mutui a far saltare il castello di carte delle banche, proprio come avevano contribuito ad alimentare l’attività economica negli Anni 2000, nell’ultimo decennio è stato il debito societario a costo stracciato ad aver giocato tale ruolo. La bolla del debito corporate ha iniziato a gonfiarsi proprio come avvenuto con quella dei prestiti immobiliari.

Dopo la crisi immobiliare i CDO e i derivati legati ai mutui sono passati di moda. La domanda si è spostata verso uno strumento finanziario simile: i CLO, in cui a essere collateralizzato è il prestito concesso ad aziende e non un mutuo acceso dalle famiglie. Sono prestiti fatti a società che non sono in grado di collocare bond direttamente agli investitori e che non hanno le carte in regola per chiedere un prestito in banca. Per capire l’entità del problema, dei mille miliardi di dollari di prestiti con leva finanziaria negli Stati Uniti, la maggioranza sono cartolarizzati in contratti CLO.

CLO elogiati da autorità ma più di 100 miliardi non sono contabilizzati

Nonostante la loro evidente somiglianza con i contratti derivati sui mutui subprime, i CLO sono stati elogiati sia dal presidente della Federal Reserve Jerome Powell sia dal segretario del Tesoro Steven Mnuchin. Sono lodati per il loro ruolo nell’aver mutato il rischio di prestiti a leva finanziaria elevata al di fuori del sistema bancario. Come fece l’ex presidente della Fed Alan Greenspan, colpevole di aver minimizzato i rischi posti dai mutui subprime, Powell e Mnuchin hanno sminuito i problemi che i CLO potrebbero porre alle banche, sostenendo che il rischio è contenuto all’interno dei CLO stessi.

Queste visioni sanguigne sono difficili da quadrare con la realtà. La Banca dei Regolamenti Internazionali stima che, in tutto il mondo, alla fine del 2018 le banche detenevano almeno 250 miliardi di dollari di CLO. Lo scorso luglio, un mese dopo che Powell ha dichiarato in una conferenza stampa che “il rischio non è nelle banche”, due economisti della Federal Reserve hanno riferito che gli istituti di credito statunitensi e le loro holding possedevano più di 110 miliardi di dollari di CLO emessi solo dalle Isole Cayman.

Un quadro più completo è difficile da ottenere, in parte perché le banche sono state incoerenti nel segnalare le loro partecipazioni in CLO. Il Financial Stability Board, che controlla il sistema finanziario globale, ha avvertito in dicembre che il 14 per cento dei CLO in circolazione – oltre 100 miliardi di dollari di valorenon è contabilizzato. Wells Fargo, ad esempio, è esposta ai CLO per 27 miliardi e 900 milioni di dollari, una cifra spropositata che dovrebbe fare tremare le gambe alle autorità di controllo e monetarie.

Banche italiane, situazione patrimoniale meno solida del resto d’Europa

Visto il sistema interconnesso e globalizzato in cui viviamo, se il settore bancario americano dovesse entrare in crisi per via della bomba CLO, come si è visto anche dodici anni fa, a rimetterci sarebbero anche i grandi gruppi finanziari d’Europa. Specie quelli meno capitalizzati. Nell’esamina condotta dall’EBA prima dello scoppio della pandemia emerge un quadro poco rassicurante da questo punto di vista per le banche italiane e spagnole: sono le peggio capitalizzate d’Europa.

In Italia i problemi di carenza di capitale sono condivisi da diversi gruppi. Per quanto riguarda la copertura dei crediti deteriorati (NPL), i miglioramenti ci sono stati. Ma in quanto a solidità patrimoniale, misurata dal rapporto di capitalizzazione Cet1 fully loaded (ossia a regime), non si può dire altrettanto. Neanche le due big UniCredit e Intesa SanPaolo si salvano.

Il rapporto è in media pari al 13,2% rispetto alla media europea del 14,8%. Mps è tra le peggiori, presentando un CET fully loaded del 12,7%, così come Banco BPM. Bper fa anche peggio con il 12%. Intesa Sanpaolo, Unicredit, UBI Banca e Mediobanca si attestano tutte al di sotto della media europea (13%, 13,2%, 12,9% e 12,3%, rispettivamente).

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